A Complete Unknown, il biopic su Robert Allen Zimmerman AKA Bob Dylan diretto da James Mangold vede, fra i suoi protagonisti, non solo le star che lo interpretano. Attori e attrici come Timothée Chalamet, Edward Norton, Elle Fanning, Monica Barbaro. Insieme a loro c'è il contesto unico abitato e vissuto da Bob Dylan nella prima metà degli anni Sessanta, ovvero il Greenwich village di New York e il piccolo appartamento in cui il Menestrello di Duluth ha vissuto in quel lasso di tempo dopo aver raggiunto la Grande Mela dal Minnesota.
Per dare forma a un affresco di celluloide che racconta un momento di svolta nella carriera dell'artista, quello del passaggio "elettrico", era di fondamentale importanza lavorare in maniera tale da riuscire a ricreare un periodo storico quasi ammantato di mistero, mitologico nella vita e nella carriera di un gigante come Dylan. Per ottenere tutto questo, James Mangold, nominato all'Oscar, ha lavorato con professionisti come il direttore della fotografia Phedon Papamichael, lo scenografo François Audouy, la costumista Arianne Phillips (altra nomination agli Oscar) e i montatori Andrew Buckland e Scott Morris che hanno illustrato dalle pagine di Deadline come si sono avvicinati a questo progetto.
Un viaggio cominciato prima della pandemia
Prima d'intitolarsi A Complete Unknown, parole riprese dal testo della celeberrima canzone Like a Rolling Stone, il biopic di James Mangold era conosciuto con un nome più esplicito, dato il tema, ovvero Going Electric.
Molto più vicino e allineato a quello del libro su cui si basa, Dylan Goes Electric! di Elijah Wald.
Le prime notizie sulla lavorazione del film risalgono al gennaio del 2020 e già si parlava di Timothée Chalamet come protagonista. Nel mentre sono accadute due cose: la pandemia e la definitiva consacrazione a star di grandissimo richiamo di Chalamet. Anche quando le prime produzioni hollywoodiane sono ripartite, in pieno covid, seguendo tutti i vari protocolli anticontagio, non sembrava saggio mettersi a girare un film come questo che prevedeva scene ambientate in piccoli locali stracolmi di gente. Il rischio di avere a che fare con contagi e costosissime interruzioni della tabella di marcia era troppo grande per un biopic "piccolo". Tra l'altro, Mangold era anche stato incaricato di girare il quinto Indiana Jones e, per un po', il biopic pareva scomparso dai radar. In realtà, non era così.
Tutte le entità coinvolte, dalla Disney (proprietaria sia della Lucasfilm d'Indiana Jones che della Searchlight del biopic) a James Mangold, stavano semplicemente attendendo che i tempi fossero maturi per rimettere in carreggiata un lungometraggio che non era mai stato accantonato, anzi.
Nel mentre tutte le persone che avevano cominciato a lavorarci prima della pandemia, hanno continuato a studiare in vista dell'effettivo avvio della produzione.
Tempo prezioso in più
Il rinvio della lavorazione di A complete unknown imposto dall'emergenza sanitaria globale, ha consentito ai vari creativi della squadra di Mangold di avere più tempo per elaborare lo spaccato di mondo che bisognava narrare. Arianne Phillips, la costumista della pellicola, spiega che per lei si è trattato di un'esperienza mai vissuta in precedenza perché non aveva mai avuto "così tanto tempo a disposizione per fare le ricerche su un film. Col cinema, non sembra mai esserci abbastanza tempo per la ricerca, sia che si tratti di una storia basata su eventi reali, sia che il film sia interamente di finzione: la parte della ricerca è davvero la principale fonte di ispirazione".
Le fa eco anche il direttore della fotografia, Phedon Papamichael, che dice: "Abbiamo avuto modo di riflettere sulle nostre idee e ispirazioni iniziali, e anche se tutto è stato fermo fino alla primavera del '24, era qualcosa che rimaneva in testa".
La riflessione si è quindi potuta protrarre nel tempo, una possibilità, questa, particolarmente gradita a chi, come Papamichael ha un approccio più visivo che tecnico al suo lavoro con la macchina da presa. Conoscere con largo anticipo importanti elementi visuali, gli ha consentito di visualizzare meglio il film mentre leggeva la sceneggiatura.
Lussi come questo, generlmente, non vengono mai concessi dalle serratissime deadline di Hollywood.
Il fattore Chalamet
Questo tempo extra ha avuto delle ripercussioni e stimoli creativi non solo sui nomi citati del compartimento tecnico/artistico di A Complete Unknown, ma anche sulla sua star di punta, l'interprete di Bob Dylan Timothée Chalamet. Nonostante un'agenda fittissima d'impegni, l'attore ha sfruttato quei mesi per impratichirsi sempre di più con la musica tanto che per le riprese del biopic si è venuta a configurare una situazione insolita: quella di performance live non registrate. Un'idea fortemente caldeggiata proprio da Chalamet.
Per Andrew Buckland e Scott Morris, i due montatori della pellicola, è stata una rivoluzione metodologica non da poco che viene illustrata in questa maniera da Buckland: "Tradizionalmente, sul set avresti una base musicale e tutti seguirebbero la stessa traccia, magari in playback. Per questo film non è andata così. Inizialmente è stato uno shock. Con la musica live è come con un castello di carte e ogni take è diverso. Scott ed io abbiamo dovuto occuparci dell'editing musicale mentre montavamo, gestendo mille cose contemporaneamente". Papamichael aggiunge che la decisione di Timothée Chalamet ha gettato nel panico alcuni dipartimenti, ma ha anche dato una nota peculiare alle scene: "Abbiamo anche scoperto che aggiungeva quel qualcosa in più. Si percepisce, quando ci concentriamo sui primi piani mentre suona l'armonica al microfono, che c'è una incredibile vitalità".
Il look mutevole di Bob Dylan
Per raccontare i cambiamenti e l'evoluzione estetica di Bob Dylan, la costumista Arianne Phillips ha ragionato suddividendo l'arco visivo di Dylan in tre fasi distinte: il suo arrivo a New York dal Minnesota, l'ingresso nella scena folk e la sua trasformazione ad archetipo rock and roll.
"A 19 o 20 anni sembrava davvero un ragazzino disordinato, con camicie stropicciate messe a caso" racconta la costumista che però, nelle sue fasi di ricerca, ha scoperto che ogni dettaglio di quel look era attentamente studiato dall'artista che, per il suo abbigliamento, si ispirava a un'altra leggenda del tempo, Woody Guthrie.
Difatti Dylan portava le camicie Pendleton, i jeans larghi da carpentiere, marchi di fabbrica dell'estetica proletaria americana tipici di Guthrie.
Entrando nella scena folk, la sua silhouette diventa più slanciata.
Per intenderci: è come lo vediamo sulla copertina dell'album The Freewheelin.
Quella dove ha addosso un paio di jeans 501, una giacca di camoscio fatta su misura per lui e una camicia a righe. "Si vede che sta evolvendo, diventando più uomo e meno ragazzo, con una silhouette più ricercata" dice la costumista.
Infine, ecco il cambiamento più significativo, che arriva nel '65.
L'anno in cui il suo stile viene fortemente influenzato dai Beatles.
Quello in cui, citando le parole di Phillips, "Indossa jeans molto aderenti, stivali con tacco cubano, caban militari e blazer slim. L'unica costante è che Bob ha sempre indossato il denim, e lo fa ancora oggi. Quello era il periodo di nascita del movimento culturale giovanile come lo conosciamo".