Si dovrebbe cominciare a ragionare sulla necessità di aggiornare la nomenclatura riguardo i generi cinematografici. Per esempio. l'horror ha un sottogenere che potremmo chiamare "horror capitalista". Si tratta di un filone filmico in cui tutte le relazioni tra i personaggi, così come le storie che li riguardano e il mondo in cui vivono gira intorno a logiche e rapporti economici.

Un sottogenere che in Corea del Sud ha trovato nel recentissimo passato, dopo Parasite di Bong Jon Hoo, una nuova linfa vitale che lo ha rilanciato in chiave pop. Coincidenza storica che Netflix ha saputo cogliere e abbracciare in grande con Squid Game e in piccolo con altre produzioni originali come 84m² di Kim Tae-joon. Questo tipo di cinema è in grado di intercettare come pochi altri i meccanismi che regolano la nostra contemporaneità, così come le angosce, le paranoie e, in genere, i mali quotidiani che le regolano.
Il titolo di cui ci occupiamo in questo articolo lo dimostra in modo incredibilmente efficace, essendo un vero e proprio concentrato proteico del peggio della società in cui l'Occidente e i suoi derivati hanno contribuito a creare. Certo, poi bisogna sempre saper fare un buon film, risultato per il quale non basta avere una buona idea o essere in grado di di creare un buona immagine del reale.
84m² di (in)felicità

Ad inizio anni Duemila in Corea del Sud la felicità era potersi permettere una casa a Seul, vista all'epoca come un luogo dell'anima inavvicinabile visti i costi esorbitanti degli appartamenti e, per questo, ancora più irresistibile. Comprare casa a Seul voleva dire provare a se stessi che si faceva parte di un élite, che si era dei vincenti e che nulla era precluso. Un po' come comprarsi un posto in paradiso.
Una sorta di quintessenza del Sogno Americano formato immobiliare (attraente perché conteneva la promessa che la felicità si potesse quantificare) e bisogna ammettere che 84m² al diciassettesimo piano di un grattacielo, cioè la casa acquistata dal giovane Woo-seong (interpretato da Kang Ha-neul), è un bel traguardo. Almeno fino a quando la durata della cornice non termina. E la cosa certa è che termina sempre. Nel nostro caso finisce appena tre anni dopo, con una bella crisi economica che ribalta la situazione: il paradiso diventa una prigione economica nella quale ogni inquilino è costretto a vivere una vita da sfruttato, perennemente in debito, ricattato dalla prospettiva di vendere rimettendoci un sacco di soldi e certificare così il proprio fallimento sociale.

L'unica soluzione è quindi resistere anche quando la vita che si conduce è peggio di quella di un senzatetto perché stretta tra la morsa (potenzialmente letale) di rumori nefasti dei vicini del piano di sopra e le accuse sempre più violente di quelli del piano di sotto, sperando qualcosa cambi di nuovo. Certo, per la consapevolezza di non essere padroni di se stessi non c'è niente da fare.
Una buona idea, sprecata

La pellicola di Tae-joon gioca sul ribaltamento dell'agiatezza acquistabile col "vil denaro", trasformando una vita agognata in una dimensione orrorifica, claustrofobica e alienante in cui cade ogni tipo di comprensione nei confronti degli altri, divisi tra loro da piani gerarchici differenti. Il mondo che restituisce è un luogo frutto di paranoie e teorie complottiste e in cui si è costantemente in ostaggio di tempi che non gestiamo più noi, ma i nostri superiori lavoro, i tempi di rivalutazione di un territorio o delle oscillazioni favorevoli di mercato. Un ritratto di una realtà contemporanea in cui lo scivolamento ad una violenza fisica è solamente una logica conseguenza.
L'idea di mettere il protagonista come centro di gravità permanente di una realtà del genere (anche visivamente e geograficamente ben pensata, tra l'altro), che nel corso della pellicola si stringe sempre più intorno a lui, è da una parte un buon modo per creare un'impalcatura ordinata con cui poter entrare in contatto senza perdersi nulla per strada, ma dall'altra presuppone che l'intreccio nel momento topico non debba venire meno. Cosa che invece, drammaticamente e puntualmente, avviene.

C'è un momento preciso e ben inquadrabile in cui 84m² ha una svolta e l'impalcatura metaforica deve mutarsi da presupposto di partenza per arrivare al nocciolo della propria tesi. Un momento sempre delicato, che il titolo accusa enormemente, aprendo ad una seconda parte molto lunga e molto confusa in cui finisce addirittura con il contraddire un percorso politico fino a quel momento lineare per cercare di sorprendere lo spettatore ad ogni costo. Il risultato è una pellicola tanto ambiziosa quanto pasticciata, che rischia quasi di depauperare un innesco efficace e un altrettanto ottima ideazione.
Conclusioni
84m² di Kim Tae-joon testimonia come la luna di miele tra Netflix e le produzioni sudcoreane continui a sfornate dei buoni titoli, sempre interessanti ed efficaci nelle loro capacità di parlare del contemporaneo in modo intrattenente e pop. Il problema stavolta è un intreccio pasticciato, che paga la voglia di sorprendere lo spettatore ad ogni costo, finendo per il non rendere per nulla giustizia ad un’impalcatura metaforica molto ben pensata tanto a livello politico quanto a livello ci meccanismi cinematografici.
Perché ci piace
- L’impalcatura metaforica è efficace.
- Le logiche dell’horror sono ben costruite.
Cosa non va
- L’intreccio è confusionario.
- La seconda parte è lunga e contraddittoria.
- Il finale va fuori strada.