E' l'esempio più classico di commedia sociale, questo C'è chi dice no. Un film che sfrutta dei volti noti del cinema italiano (i protagonisti Luca Argentero, Paola Cortellesi e Paolo Ruffini) per affrontare quella che è la piaga per eccellenza della realtà lavorativa italiana, quella delle raccomandazioni sul lavoro e della mancanza di meritocrazia. Un tema affrontato con toni leggeri, ma con un sufficiente grado di realismo, che comporta anche un coinvolgimento emotivo dello spettatore a tratti molto forte. Del film e dei temi ad esso collegati si è parlato nella conferenza stampa odierna, a cui hanno partecipato, oltre al regista Giambattista Avellino e ai tre protagonisti, il maestro Giorgio Albertazzi (che appare in un piccolo, divertente ruolo) e il responsabile della casa di produzione Cattleya Marco Chimenz. Quest'ultimo ha voluto prendere la parola per primo, spiegando ai presenti il senso e la ragione prima del film: "E' un film che nasce da una riflessione, dall'osservazione di situazioni che tutti abbiamo vissuto almeno una volta, direttamente e non. Ci sembrava un buon argomento da mettere in un film, in chiave di commedia: è un tema molto importante, che tra l'altro è spesso sui giornali."
Perché affrontare un tema così serio proprio attraverso la commedia?
Giambattista Avellino: Dietro alla definizione di commedia ci sono tante cose, film anche molto diversi tra loro. Qui avevamo un tema sociale anziché argomenti più intimi, come in molte altre commedie italiane, e non mi sembra che ne abbiamo data una descrizione particolarmente edulcorata o consolatoria. Quella di commedia è solo un'etichetta, ma la nostra certo non è una commedia "evasiva" rispetto ai temi che racconta.
Giorgio Albertazzi: La commedia ha una grande tradizione di denuncia, basti pensare alla commedia romana. Vogliamo parlare poi dell'opera di Dante, che si chiamava semplicemente Commedia, prima che qualcuno aggiungesse quel "Divina"? Io credo che questo sia un buon film, girato con leggerezza: il che non vuol dire superficialità, tutt'altro. E' una denuncia non solo delle raccomandazioni e del nepotismo, ma anche di un altro male italiano, che è la burocrazia opprimente.
Luca Argentero: Certo, questo mestiere è fatto di no, è una cosa che capita a tutti. E meno male che questo succede... a dire il vero, nel mio caso sono stati molti di più i no che i sì. Ne ho detti anch'io, di no, ed è stato un bene, perché ho potuto far parte di progetti più interessanti, come quello di questo film.
Paola Cortellesi: Anch'io ne ho avuti tanti, di no, continuo ad averne e continuo a pronunciarne. E' importante far pace col rifiuto, prenderlo come un'eventualità normale e non come una sconfitta personale.
Paolo Ruffini: Ne ho avuti tanti anch'io, ma non mi domando mai se me li meritavo... piuttosto, mi chiedo spesso se merito i sì.
Albertazzi, il male delle raccomandazioni è peggiore ora, o lo era ai suoi tempi?
Giorgio Albertazzi: Io mi sono laureato nel '52, e quella era un'epoca terribile: si compravano e vendevano lauree come se niente fosse. Ora tuttavia è anche peggio, perché al male delle raccomandazioni si è aggiunto quello della burocrazia: ora sono di più le persone che prendono le decisioni, ci sono delle vere e proprie caste.
Luca Argentero: Quello delle raccomandazioni è un tema che fa parte della nostra vita quotidiana, da sempre. Chi non ha mai pensato, in certe situazioni, di avere delle piccole agevolazioni da conoscenze che potevano aiutarlo? E' un pensiero, una mentalità talmente radicata che è diventata parte della nostra vita. La presa di coscienza dovrebbe partire proprio da questi casi, dalle piccole cose.
Perché il film è stato ambientato a Firenze e non a Roma? Dato il tema, la capitale sembrava il luogo più adatto.
Giambattista Avellino: Innanzitutto il problema che trattiamo è un problema nazionale, quindi qualsiasi luogo sarebbe andato bene. Abbiamo scelto Firenze perché nelle grandi città si ha la sensazione che, una volta che una porta ti si chiude, te se ne aprano altre cento: si ha l'illusione di avere più possibilità. In una città più piccola, i personaggi si trovano invece in una situazione più compressa, più opprimente.
Giambattista Avellino: Se avessimo alleggerito troppo il dramma alla base del film, avremmo snaturato il film stesso. Con gli attori, abbiamo lavorato insieme sul copione, in modo quasi teatrale, nonostante i tempi molto stretti: ci serviva sentire insieme ciò che questa storia comportava, il suo aspetto emotivo. C'è stato in effetti un equilibrio tra il registro più da commedia del film, e quello maggiormente legato all'emozione. Quest'ultimo poi è venuto fuori più prepotentemente, e inaspettatamente, in fase di montaggio.
L'Italia, negli ultimi tempi, è invasa dalle commedie. Non pensate che ci sia il rischio di una saturazione, che il pubblico si stanchi?
Paola Cortellesi: Io eviterei il termine "invasa". Il registro della commedia è un veicolo importantissimo per parlare della nostra realtà, basti pensare ai film di un maestro come Mario Monicelli. I film vanno valutati per la loro qualità, le etichette lasciano il tempo che trovano.
La colonna sonora del film è particolarmente ricca ed eclettica. Come ci avete lavorato?
Pivio: Io e Aldo De Scalzi ne abbiamo discusso molto, insieme a Giambattista, e alla fine abbiamo deciso di evitare un impianto orchestrale per inserire soprattutto canzoni. Ci sembrava interessante affrontare musicalmente una commedia in modo diverso, con un'impostazione che ricordasse le commedie anglosassoni.
Giambattista Avellino: Intanto è da dire che non tutto è progettato, quando si scrive un film. Dai tempi di Monicelli, comunque, le cose sono molto cambiate intorno a noi: quella era l'Italia del dopoguerra e del periodo immediatamente successivo, era un paese che doveva ritrovarsi e ricostruirsi, e dentro di esso si aggiravano personaggi più o meno squallidi. Oggi c'è un maggiore bisogno di redenzione, di spinta verso la positività.