Quando l'horror non è di rito
Da qualche anno il maligno, al cinema, ha ricominciato ad andare di moda. La variante dedicata alla pratica dell'esorcismo, in particolare, che in passato ha dato al genere uno dei suoi classici con il famosissimo L'esorcista di William Friedkin, è tornata prepotentemente alla ribalta con titoli quali il pur fallimentare L'esorcista: La genesi, il non disprezzabile The Exorcism of Emily Rose e il recente mockumentary L'ultimo esorcismo. Filone prolifico per il cinema horror e non solo, dunque, dalle suggestioni potenzialmente infinite per la sua tendenza a mostrare un male pervasivo e capace di incunearsi nella quotidianità della vita delle persone, rovesciandola dalle fondamenta; ma paradossalmente anche sfruttato, standardizzato, consegnato a un genere in apnea che nella sua variante più di cassetta è capace di esprimere solo innocui spaventi plastificati, espressione di un immaginario che negli ultimi anni ha ristretto di molto la sua capacità di visione. E' quindi con favore che va salutato, a prescindere dalla sua effettiva riuscita, un esperimento come quello di questo Il rito: un tentativo di coniugare la logica del blockbuster con una visione più sobria e a suo modo più realistica del tema, in cui gli shock gratuiti e l'immagine standardizzata della possessione siano sostituiti da un approccio più neutro, che tenti di documentare (ispirandosi tra l'altro a fatti reali) cosa davvero succeda durante un esorcismo.
La storia, ispirata al romanzo di Matt Baglio (consulente sul set e giornalista interessato al tema, che a sua volta si è rifatto a eventi da lui osservati) prende le mosse dal viaggio a Roma di Michael Kovak, seminarista statunitense incerto sulla sua vocazione e in fuga da un padre oppressivo, che su insistenza dei suoi superiori decide di seguire un corso di esorcismo tenuto in Vaticano. Attraverso questo corso, il giovane fa la conoscenza di padre Lucas Trevant, un prete esorcista tra i più noti nell'ambiente, dal carattere forte e dai metodi poco ortodossi. Inizialmente scettico, Michael non sa dire se padre Lucas sia un folle, un imbroglione o qualcuno che davvero crede in ciò che fa; ciononostante, inizia a seguire i suoi esorcismi diventando il suo apprendista, e venendo man mano a contatto con fenomeni che gli appaiono sempre più inspiegabili. La scorza del suo scetticismo inizia a vacillare, ma il suo coinvolgimento personale non sarà privo di un prezzo da pagare; nel frattempo, la giornalista Angeline, anche lei presente al corso e anche lei in cerca di risposte sull'argomento, avvicina Michael per avere informazioni sugli esorcismi di padre Lucas. I meccanismi narrativi di questo film si discostano in modo significativo, almeno per tutta la prima parte, da quelli di un classico horror sulle possessioni demoniache. E' evidente, fin dall'inizio, lo sguardo neutro ed "agnostico" del regista Mikael Håfström (nel suo curriculum l'horror 1408, ma anche l'ancora inedito dramma storico Shanghai) che mostra dapprima gli effetti dell'opprimente educazione cattolica del protagonista (il padre, un cupo agente funebre, è interpretato da un Rutger Hauer che ci fa sempre piacere rivedere sullo schermo), il suo vivere fin dall'infanzia a stretto contatto con la morte, il suo desiderio di fuga che lo porta, paradossalmente, proprio tra le braccia di una religione che non ha mai realmente sentito come sua. La sceneggiatura si interroga fin dall'inizio sul senso di parole quali "vocazione", ci mostra la vicenda attraverso la lente dello scetticismo del protagonista, evita di prendere una posizione netta su fenomeni la cui realtà è innegabile, ma la cui interpretazione non è mai mostrata come univoca. La sceneggiatura segue l'indagine del giovane seminarista concentrando la sua attenzione più sul suo mondo interiore, e sul suo personale rapporto con i fatti di cui è testimone, che sull'inquietudine provocata dai fatti in sé. Lo script non lesina di disseminare dubbi sullo stesso personaggio di padre Lucas, un Anthony Hopkins intenso come sempre, dal fare enigmatico e magnetico, la cui caratterizzazione si discosta tanto dallo stereotipo del prete cattolico, quanto da quello che ormai viene attribuito a un esponente del clero che si caratterizzi come anticonformista. Il carattere neutro della narrazione si incrina tuttavia nella seconda metà del film, parallelamente alla scelta del protagonista di superare il suo scetticismo, e dare agli eventi di cui è testimone la spiegazione suggerita da una fede che gradualmente riscopre in sé. Ma non è tanto la scelta di campo operata dallo script, in fondo dichiarata e inevitabile, a rappresentare un problema, quanto l'adagiarsi della regia su un registro più convenzionale, che fa perdere al film la forza dell'ambiguità fino ad allora mantenuta. Gli sviluppi della vicenda, che evitiamo di rivelare, impongono una radicale modifica dei ruoli dei protagonisti, ma anche lo scivolare dell'intera pellicola su territori più battuti e sicuri, quelli di una storia di possessione sovrannaturale che utilizza ben collaudati meccanismi di coinvolgimento e spavento. Così, lo sguardo del regista si sposta dall'inquietudine del protagonista a quella (ricercata) dello spettatore, cedendo il passo a una logica da blockbuster da cui il film non riesce ad affrancarsi del tutto.
Nonostante questo, va detto che questo Il rito riesce, almeno per buona parte della sua durata, a suscitare quei dubbi e interrogativi che sempre dovrebbero nutrire un certo tipo di cinema, intento limpido nella sua programmaticità e sincerità, seppur non sempre rispettato. E se sui volti degli spettatori, all'uscita della sala, appariranno almeno un po' dei dubbi che hanno animato per lunghi tratti del film lo sguardo del bravo Colin O'Donoghue, possiamo dire che l'obiettivo è stato sostanzialmente raggiunto.
Movieplayer.it
3.0/5