Venezia 2012: Simon e Peter Brook al Lido con The Tightrope

Abbiamo incontrato il celebre regista teatrale e suo figlio in occasione della sua visita al Lido per presentare The Tightrope.

La terrazza dell'Hotel Excelsior del Lido, la spiaggia a pochi passi, la cornice perfetta per un incontro suggestivo come quello che abbiamo avuto con Simon e Peter Brook, alla 69ma edizione del Festival di Venezia per presentare The Tightrope, affascinante documentario diretto da Brook figlio sugli esercizi che il padre Peter fa compiere agli attori che lavorano con lui. Un'autorità nel campo del teatro inglese ed internazionale, regista di fama mondiale, ha svilippato e perfezionato una tecnica unica, che si rifà al concetto della fune del funambolo, The Tightrope del titolo, per rappresentare visivamente e concettualmente il sottile equilibrio tra commedia e tragedia, ma anche tra ogni singolo aspetto dell'arte e della vita.
Il film è un evento eccezionale, perchè mostra queste tecniche ed un workshop di due settimane in cui Brook le applica con artisti di tutto il mondo; tecniche a cui nessuno ha mai assistito in precedenza, per un evento girato con cinque telecamere nascoste per non invadere l'esperienza e rovinare l'atmosfera magica che si viene a creare nelle prove per i suoi spettacoli.
Un lavoro, quello di Simon, prodotto anche dal nostro Ermanno Olmi che in conferenza, nel spiegare cosa li abbia spinti a produrre questo lavoro, ha sottolineato "Quando uno come Peter ti dice ho un'idea, cosa vuoi domandare di più? Non abbiamo mica chiesto 'hai la sceneggiatura? Cosa vuoi raccontare?'"
Un incontro magico il nostro con Simon e Peter Brook, due persone incantevoli, di quelle che riescono ad arricchire i propri interlocutori nei brevi momenti in cui entrano in contatto, come è accaduto oggi quando ha voluto realizzare anche con noi uno dei suoi esperimenti, chiedendo alla nostra interprete di fare la traduzione simultanea e non al termine della risposta per una delle nostre domande. "La cosa sorprendente ed affascinante è rendersi conto di quanto tempo ci sia e di come lei abbia tradotto in modo rilassato." Ha detto alla fine dell'esperimento. "Questo ci fa capire che il funambolo su questa corda tesa riesce a farlo con riflessione, mentre noi lo faremmo in modo frenetico e ansioso. Invece c'è tempo per ragionare."

Per la prima volta ha voluto svelare i segreti del suo lavoro. Come nasce l'idea di questo documentario? Peter Brook: Ogni volta che vengo in Italia, si rivolgono a me come maestro ed io mi volto chiedendomi con chi ce l'hanno. (sorride) The Tightrope è un lavoro unico, eccezionale proprio perchè fatto da Simon, quindi nato da una base di fiducia. Non ho mai consentito qualcosa del genere, non solo di filmare, ma anche di di essere presente, perchè si tratta di un processo negativo per chi partecipa. Questa cosa che abbiamo realizzato è un film unico perchè va ad esaminare alcuni aspetti degli esercizi che hanno a che fare col teatro, ma anche con la vita. Il discorso della corda tesa è una situazione in cui siamo tutti, di essere sempre sulla lama del rasoio rischiando di cadere da una parte o dall'altra. Non è un documentario, ma una drammatizzazione.

Che ne pensa Simon che questa corda tesa l'ha percorsa? Simon Brook: E' stata una grossa sfida per me e per realizzarlo ho fatto tre cose che normalmente non si fanno per natura pratica. Prima di tutto è stato folle per me andare alle sue prove, perchè è male per gli attori, per il lavoro che devono compiere. Si esercita una certa pressione su chi deve preparare lo spettacolo per questo abbiamo creato questo workshop di due settimane. La seconda cosa è che durante questo workshop abbiamo girato con tecnica multicamera, come se fosse televisione dal vivo. Il terzo punto è che è stato come realizzare un documentario, perchè una volta terminate le riprese siamo dovuti ripartire da tutto questo materiale per scegliere cosa includere. Da lì abbiamo creato la struttura del film ed abbiamo deciso come sviluppare il lavoro. Normalmente si ha una sola di queste tre difficoltà.

In quanto memoria storica del teatro contemporaneo, come ha visto cambiare l'aspetto umano di questa arte? Peter Brook: Tutto si cambia, è qui la chiave. La tragedia delle opere è che molte persone le hanno sempre considerate come immutabili, che non cambiassero mai, invece è il contrario: è l'umanità che non cambia. Per molti anni in Inghilterra c'è stato questo atteggiamento folle che le opere di Shakespeare non potessero essere cambiate, invece oggi vediamo le cose in maniera diversa. Oggi c'è la sensazione vera che l'essere umano è in continua evoluzione ed anche nelle situazioni più tragiche si ritrova qualcosa di grandioso. Le opere immortali, è vero, sono immobili perchè sono scritte in un libro, ma quando le vai a leggere scopri che ci sono aspetti che vengono tirati fuori in continuazione, ma prima o poi capita che qualcuno lo faccia come nessuno aveva fatto in precedenza. E' quello che sta succedendo in questi anni. E' la fune. Se non cambi niente cadi da una parte, a destra come in politica, se cambi troppo, cadi a sinistra. Ed è questa la corda tesa, tenere l'occhio fisso sull'ideale umano che non si raggiungerà mai perchè è oltre la corda, ma ci consente di progredire ed avanzare. E' necessario trovare l'equilibrio avanzando, perchè a restare immobili prima o poi si cade.

Dal film traspare la grande energia ed intensità che si viene a creare durante questi workshop. Come è riuscito ad ottenere questo risultato? Simon Brook: Credo che una delle ragioni sia a causa delle riprese multicamera, che permettono allo spettatore di essere immerso nell'ambiente in cui si è tenuto il workshop, di partecipare. Con la mia montatrice scherziamo sempre sulla dicitura "tempo non cronologico", che è tanto altisonante, ma non significa niente, ma credo che la chiave sia proprio nel tempo. Noi abbiamo preso una fetta di tempo, nel nostro caso non si tratta di una cosa sequenziale. Quando si fa un film normalmente si gira il campo e poi il controcampo con la reazione. In questo caso invece azione e reazione hanno un collegamento, si tratta di qualcosa di reale, preso dal vivo.

Avendo girato per due settimane, il materiale a disposizione sarà stato tantissimo. Come ha scelto cosa selezionare? Avrebbe voluto più spazio a disposizione per includere altri momenti del workshop? Simon Brook: In realtà penso che la durata del film è quella corretta. Una durata maggiore sarebbe stata giustificata se si fosse trattato di qualcosa per le scuole, in cui gli studenti devono guardare e riguardare, ma forse è anche il motivo per cui la scuola è considerata noiosa. Io sono fortunato perchè ho una montatrice con cui collaboro da più di dieci anni con cui non andiamo d'accordo su niente. Se io dico che una cosa è magnifica, lei dice che fa schifo, e viceversa. Ma questo ci permette di fare una selezione a priori del materiale.

Ieri è stato proiettato Tell me Lies che affronta un periodo preciso. Qual è stata la reazione nel rivederlo, anche considerando il discorso di prima sui cambiamenti? Simon Brook: Posso rispondere io? Abbiamo guardato insieme il film e mio padre mi diceva che per quarant'anni avrebbe voluto cambiare due scene, ma ovviamente nel film non si può fare. Con la pellicola capita di voler modificare qualcosa, ma ormai è là, intoccabile. Oggi invece col digitale si può fare.

Peter Brook: Prima Simon parlava della capacità di coinvolgere, di andare oltre lo schermo piatto, ed è quello che abbiamo cercato di fare. Se questo qualcosa, sia esso il teatro, scrivere, dipingere, qualunque arte, torna a vivere quando arriva all'altra persona, a chi ne usufruisce, allora vuol dire che è efficace. Se questo accade, si tratta di quacosa di vivo, altrimenti è morto, è noioso, diventa quella cosa tragica che viene chiamata cultura. La ragione per la quale sono stato felice che fosse restaurato Tell me Lies è stato la possibilità di riportarlo in vita, La cosa drammatica è che gli eventi della guerra del Vietnam sono sì del passato, ma appartengono all'oggi.

Lei ha detto che viviamo tutti sulla corda tesa, ma ai due lati della corda cosa c'è? Simon Brook: Sulla corda si deve cercare di mantenere l'equilibrio ed andare dritto. Se si perde l'equilibrio si cade, ma non è importante da che parte, in entrambi i casi non c'è niente di positivo.

Peter Brook: Questo è una delle ragioni per cui la parola maestro è anche pericolosa. Noi siamo qui cercando di pensare, di dire qualcosa al meglio delle nostre possibilità, sulla corda, ma mentre siamo in equilibrio ci colpiscono le nostre esperienze del passato. In qualche modo quello che abbiamo vissuto arriva, ma se cerchi di ragionare non è mai positivo, come per il funambolo sulla corda. Se si ferma a ragionare, a pensare alla tecnica che ha per camminare in equilibrio, a come muovere la gamba o mettere il piedi, è quello il momento in cui cade.

La nostra epoca è l'era digitale, quella del 2.0. Che cosa eliminerebbe del mondo di oggi? Peter Brook: Grazie a Dio non ho il potere di fare niente del genere, perchè sono sicuro che farei la cosa sbagliata.

Simon Brook: Forse più che eliminare, cercherei di passare al 3.0, a passaggio successivo. Una volta quando si andava ai concerti la gente partecipava con l'accendino, oggi lo fa con l'iPhone. Quando si va in vacanza, non si pensa ad altro che a fare foto e condividere. Non pensiamo a com'è la nostra vacanza, se sia bella o meno vogliamo che ce lo dica la gente che commenta. La stessa cosa quando andiamo a mangiare fuori, ci preoccupiamo di fare la foto al piatto per mostrarla agli amici, ma non ci soffermiamo ad assaporare quello che stiamo mangiando. Vorrei arrivare ad una tecnologia successiva in cui attraverso la camera si possa anche apprezzare il gusto del cibo. Basta che si torni ad assaporare la vita.

Ora vivete a Parigi, non vi manca l'Inghilterra? Simon Brook: Penso che in Gran Bretagna esista e ci sia sempre stato un fervore creativo sempre in fermento. Non so perchè sia così. Ci sono dei paesi che sono diventati dei musei, ma questo non vale per l'Inghilterra. La lingua inglese è così ricca e così aperta anche al di fuori, all'esterno, e questo fa sì che assorba dagli altri e crei collegamenti tra i mondi. Ci sono in inglese 12000000 parole, in francese 450000. La letteratura inglese ha maggiore facilità di raggiungere un livello di istruzione superiore. Tutti possono usare le parole, perchè sono gratuite.

Peter Brook: E' interessante quanto detto sull'inglese, che è una lingua magnifica, fantastica per recitare. L'inglese ti consente di fare le pause. Ed è legittimo fare le pause, perchè è espressione di qualcosa che viene dal profondo. In francese no, perchè è la lingua del pensiero e fermarsi a metà fa sì che tu perda il pensiero.