Recensione Legami di sangue (2008)

L'intento di Paola Columba, qui al suo debutto come regista, è chiaramente quello di sporcarsi le mani in una storia viscerale che mescola ai legami di sangue il richiamo della terra.

Il paese è reale

La realtà del nostro paese passa spesso al cinema come più sopportabile di quanto in realtà non sia. L'immagine edulcorata che di essa forniscono le opere mainstream s'adagia in storie borghesi che non producono alcuno stimolo, in situazioni scialbe che propongono un intrattenimento fino a sé stesso, senza mai andare a scavare nella profondità di quelle sacche di tragica quotidianità di chi l'abbondanza la conosce solo dai sogni. Con Legami di sangue, l'esordiente Paola Columba si allontana dal caos metropolitano per indagare una realtà che spesso resta fuori dal racconto filmico, quella arcaico-rurale, che ancora resiste in molte zone della nostra penisola. In particolare, il film s'addentra nell'entroterra molisano, per raccontare la storia di una famiglia contadina, composta da tre fratelli e una sorella, che sarà distrutta da problemi insanabili legati all'eredità e a un passato segnato da eventi tragici mai superati.

Il cinema indipendente low-budget si esprime qui al suo livello più elementare: le riprese in hd seguono i protagonisti con l'ossessione del realismo esasperato, il montaggio scolastico mette insieme le scene con un po' troppa approssimazione, i flashback arrivano puntualmente a spiegare e ribadire ogni passaggio di una trama già limpida, e via dicendo. L'intento della regista è chiaramente quello di sporcarsi le mani in una storia viscerale che mescola ai legami di sangue il richiamo della terra. La sua regia resta in ogni momento aggrappata ai protagonisti, ma lo sguardo su di essi non si fa mai troppo pietoso. Siamo certamente di fronte a un racconto 'affettuoso' di questa tragedia familiare, ma la Columba, autrice della sceneggiatura insieme a Fabio Segatori, non tace le debolezze e l'istinto animale dei personaggi che spesso li costringono ad azioni esagerate e drammatiche.

Gli attori (tra essi anche Arnoldo Foà in un piccolo ruolo) si pongono a completo servizio del racconto, accettando di trasformarsi anche fisicamente, con un'evidente tensione alla sottrazione. Nonostante i limiti palesi di un prodotto piuttosto ingenuo, sia in quanto a script che a messa in scena, la storia si lascia seguire con una certa attenzione, proponendo riflessioni non scontate: ci sono un prete egoista e una Chiesa che rappresentano per Luana un miraggio salvifico, salvo poi essere abbandonata a sé stessa nel momento del bisogno; c'è la difficoltà della ripartenza di chi è appena uscito di galera e si ritrova tra le mani polvere e solitudine; c'è la condizione della donna ancora sottomessa in simili contesti. La Columba non teme gli eccessi, portando il suo racconto nella tragedia più disperata, ma lo stucchevole didascalismo sempre in agguato toglie forza agli eventi che si susseguono sullo schermo. Sono peccati di inesperienza che il tempo provvederà a correggere, ciò che resta sono soprattutto le rughe, la fatica e il dolore di chi è costretto ancora a guadagnarsi il pane lavorando la terra, in condizioni limite che forse qualcuno credeva superate.