Hiroshi Nagahama, regista dell'anime Flowers of Evil, riflette sul controverso uso del rotoscopio che ha diviso il pubblico. Nonostante le critiche, conserva un forte legame affettivo con l'opera. Ammette che oggi, con il senno di poi, tornerebbe indietro per cambiare una sola cosa: non farlo col rotoscopio, nonostante sia la sua caratteristica più esclusiva, essendo stata la prima serie anime a utilizzare questa tecnica.
Flowers of Evil, un esperimento stilistico che ha spaccato il pubblico
Quando nel 2013 Flowers of Evil debuttò sugli schermi giapponesi, l'effetto fu simile a un fulmine che attraversa un cielo già carico di tensione: una spaccatura netta tra chi vide nell'opera di Hiroshi Nagahama una gemma coraggiosa e chi, invece, ne rimase turbato e respinto. Il motivo? Un tratto tecnico ben preciso: la scelta di realizzare l'intero anime attraverso il rotoscopio, una tecnica che prevede di ricalcare a mano sequenze girate con attori reali. "Credo che capimmo di aver centrato la concertazione visiva del rotoscopio solo alla prima proiezione interna del team", ha raccontato Nagahama ad Anime News Network. "Fino ad allora non avevamo idea di come il pubblico medio l'avrebbe percepita. Se avessi una macchina del tempo, tornerei indietro e direi a me stesso: 'Non ti azzardare a farlo in rotoscopio'".
Una dichiarazione che non è un pentimento totale, ma piuttosto una riflessione sullo scarto tra ambizione autoriale e ricezione del pubblico. Perché se da un lato molti hanno lodato la fedeltà dell'anime al manga di Shuzo Oshimi, dall'altro lo stile visivo iperrealista ha creato una frattura percettiva: troppo disturbante per alcuni, troppo distante dallo stile grafico originale per altri.
Flowers of Evil ruota intorno a una vicenda inquietante: Takao Kasuga, studente di scuola media, ruba i vestiti della ragazza che ama, Nanako Saeki, finendo sotto il ricatto di Sawa Nakamura, personaggio enigmatico e disturbante che lo trascina in una spirale psicologica senza ritorno. È proprio Nakamura a rappresentare il nucleo oscuro dell'opera, e non è un caso che Nagahama e la sua squadra si siano sentiti profondamente legati a lei. "Per noi, Nakamura era una ragazzina sfortunata che andava protetta con amore", ha confessato il regista. Ma è in una scena precisa che si è aperta una faglia tra autori e spettatori: "C'è una scena che per noi era comica. Per il pubblico, era disturbante. In un certo senso, credo che ci stavamo tutti identificando con Nakamura... Eravamo tutti Nakamura".
Una confessione potente, che racconta quanto il processo creativo possa trasformarsi in simbiosi con i personaggi e quanto questo possa portare lontano dal sentire comune. Oggi Flowers of Evil rimane un oggetto misterioso dell'animazione giapponese: non più disponibile in streaming negli USA, ma ancora vivo nella memoria di chi ha accettato di perdersi nel suo abisso visivo.