Soccorritori, prostitute, pescatori, botanici, simpatizzanti della nobiltà, interpreti di fotoromanzi, ex docenti universitari dispensatori di filosofia spicciola. L'umanità varia che popola i paraggi del raccordo anulare, quel nastro d'asfalto in cui è racchiuso il cuore di Roma, diventa protagonista di Sacro GRA, nuovo documentario di Gianfranco Rosi. "Sacro" in quando luogo necessario e maledetto dagli automobilisti costretti a immettersi ogni giorno nel traffico della Capitale. Un gomitolo di strade che definisce, protegge, smista, assolve a numerose funzioni definendo la città agli occhi di romani e non romani. Il documentario è stato scelto da Alberto Barbera come terzo e ultimo film italiano presente in competizione. Gianfranco Rosi, approdato al Lido, ci racconta la genesi della sua opera, le difficoltà sorte nel corso della lavorazione e le aspettative nei confronti di un concorso che ormai sta sparando gli ultimi colpi.
Gianfranco, questo è il primo film che non nasce da te, ma ti viene offerto. Come si è sviluppato il progetto?Gianfranco Rosi: In una prima fase c'è stato un investimento sul tempo. Nei primi sei mesi di lavoro ho esplorato il raccordo. I produttori mi chiedevano materiale, ma io ero ancora in una fase di studio. Ho svuotato il raccordo di tutto, personaggi, auto, per trasformarlo in luogo ideale, in pretesto narrativo. In un luogo apparentemente privo di identità ho poi inserito personaggi caratterizzati da una forte territorialità e da un solido legame col passato. Dopo aver girato molto materiale mi sono dovuto distaccare da esso ripartendo da capo, visto che il film è frutto del montaggio. Un montaggio lunghissimo visto che è durato sette mesi.
Sacro GRA è nato dall'incontro con l'ideatore del concetto visivo Nicolò Bassetti che, in fase di preparazione, ha percorso i 300 km del raccordo a piedi.
Nicolò Bassetti: L'ispirazione per il film viene da Renato Nicolini. Ero già attratto dal raccordo, mi piaceva perdermi al suo interno, ma quando mi sono imbattuto nel saggio di Nicolini, La macchina celibe, non ho più resistito e in varie tappe ho esplorato il raccordo. Il viaggio è durato venti giorni. Alla fine ho consegnato mappa, personaggi, storie e luoghi a Gianfranco. Il comune denominatore del nostro lavoro è stata la lentezza e proprio grazie alla lentezza mi sono innamorato del raccordo.
Gianfranco Rosi: All'inizio non volevo fare questo film perché è la prima opera nata non da me, ma realizzata su commissione. Ci ho pensato a lungo, poi ragioni familiari e l'incontro con Nicolò mi hanno spinto ad accettare.
Il documentario, in questi ultimi anni, sta vivendo un boom. Cosa ne pensi?
Gianfranco Rosi: Quando faccio i miei film non penso alla divisione tra fiction e non fiction. So che la differenza è profonda, perché io lavoro da solo, ma non sento che le mie opere debbano far parte di una categoria a sé. Non faccio documentari per scelta ideologica, ma per esigenze narrative perché per me la storia viene prima di tutto. So però che i documentari hanno difficoltà a trovare un pubblico e dvo ringraziare Barbera che quest'anno, per la prima volta, ne ha inseriti due in concorso.
Gianfranco Rosi: L'aspetto principale che emerge è la poesia insita inq uesti personaggi. Poesia che non è contenuta nel mio sguardo, ma nel loro modo di porsi di fronte alla macchina da presa. Loro sapevano che erano ripresi, ma hanno saputo mettersi in gioco fino in fondo. Ho passato molto tempo con loro. Parlavamo, mangiavamo e poi all'improvviso giravo. Ho dovuto capire quando filmare, quando smettere, quali storie inserire nel mio film. Abbiamo trascorso insieme due anni e da tutto questo materiale sono venute fuori poche storie.
A che tipo di sacralità allude il titolo del documentario?
Gianfranco Rosi: Il titolo non l'ho scelto io. Il progetto era stato chiamato così fin dall'inizio. Poi io non penso mai ai titoli dei miei lavori. E' qualcosa che arriva alla fine. In questo caso, a documentario finito, abbiamo pensato di cambiare perché ci portavamo dietro il titolo provvisorio da troppo tempo, ma poi ho capito che 'sacro' allude al mistero dei personaggi, del luogo e anche di come siamo arrivati alla fine del film.
Non trovi che i tuoi personaggi, a tratti, siano più esposti che raccontati?
Gianfranco Rosi: Ogni storia rappresenta il personaggio fino in fondo. Se avessi voluto solo esporli al pubblico non avrei fatto questo lavoro.
Gianfranco Rosi: La responsabilità di raccontare una storia esiste sia nel documentario che nel film di finzione. Ogni volta che consegno un lavoro non mi appartiene più. La sfida che mi sono posto è quella di raccontare le mie storie cercando di superare il confine tra realtà e finzione. Il tutto lavorando per sottrazione. Penso che la forza del documentario sia la sperimentazione altrimenti questo genere muore. La libertà che abbiamo oggi è enorme, soprattutto con le nuove tecnologie. Io posso prendere un aereo e andare a girare ovunque. Invece nessuno è in grado di realizzare un film di finzione da solo, senza una struttura alle spalle.
Nel film non vediamo mai niente che ci ricordi l'iconografia della Roma classica, neppure il cupolone.
Gianfranco Rosi: Molti mi hanno detto che ormai Roma è invivibile, mummificata. La vita inizia ai margini del raccordo anulare. In quel luogo ho trovato dei personaggi incredibili e non avrei mai potuto trovarli al centro di Roma perché possono stare solo lì.