Quando arriverà il giorno del giudizio, tutti saremo valutati in base a ciò che siamo e siamo stati, e non per il nostro aspetto e la nostra apparenza. È un qualcosa che credono in tanti, spesso indipendentemente dalla propria formazione religiosa e dalla propria fede, e rappresenta un tema sensibile per tanti esseri umani. È così anche per i protagonisti di Yomeddine, che significa proprio giorno del giudizio in arabo, diventando uno dei temi portanti del film presentato in concorso all'edizione 2018 del Festival di Cannes.
Si tratta dell'opera d'esordio del giovane regista A.B. Shawky, nato nella capitale egiziana e al suo primo lungometraggio dopo aver diretto alcuni corti. Un film che nasce dall'esperienza dell'autore presso la colonia per lebbrosi di Abu Zaabal, dove ha girato uno dei suoi cortometraggi, una sequenza di quindici minuti di ritratti di persone che vi vivono. Da lì l'idea di approfondire l'argomento, di indagare una malattia solo di recente debellata, che ha ovvie conseguenze fisiche ma anche inevitabili strascichi sociali.
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Isolamento
Shawky concentra la sua attenzione su Beshay, un uomo guarito dalla lebbra, ma con il corpo segnato dalla malattia, mutilato nelle mani così come nel viso. La colonia in cui ha vissuto è stato tutto il suo mondo sin dall'infanzia, fino alla morte della moglie che spinge a partire alla ricerca delle proprie radici. Con tutto ciò che possiede caricato su un carretto trainato dal suo asino, Beshay si mette in marcia ed attraversa l'Egitto alla ricerca di un luogo in cui provare un senso di appartenenza. A lui si unisce presto il piccolo orfano Obama e i due entrano in contatto con la dura realtà del mondo che li circonda, con la miseria, ma anche la bellezza, del paese in cui si trovano a viaggiare.
La forza interiore
A.B. Shawky non è andato a cercare il Beshay di Yomeddine tra gli attori professionisti, ma tra coloro le cui esistenze sono state segnate dalla malattia. Ad interpretare il protagonista del film è infatti Rady Gamal, reclutato dal regista proprio in una colonia per lebbrosi e capace di incarnare l'energia interiore e l'umanità che cercava per il personaggio che aveva in mente. La storia di Gamal non è uguale a quella del personaggio a cui dà vita, ma è nella carica emotiva, nell'intensità e nella capacità di catturare l'attenzione e l'affetto del pubblico che risiedono le similarità tra i due.
Shawky gestisce bene l'incontro tra lui e lo spettatore, mostrandocelo poco per volta, lasciando che ci si abitui al suo aspetto per potersi concentrare unicamente sulla sua umanità. Non è sua intenzione enfatizzarne le sofferenze, ma usarle per definirne la forza e lo spirito. È con la stessa gradualità che costruisce il rapporto che lo lega al piccolo Obama, col quale arriva a instaurare una relazione padre/figlio: le dinamiche tra loro sono la lente attraverso la quale vediamo e viviamo le situazioni in cui si trovano coinvolti, ma dagli eventi sono allo stesso tempo modellate e rafforzate.
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Il calore dello sguardo
Il tono con cui Yomeddine racconta il viaggio on the road dei suoi protagonisti è intriso di calore, quasi da favola, in un crescendo di emozioni che vive di alcuni momenti molto intensi, che culmina nel finale, ma soffre di una eccessiva leggerezza: se l'aspetto positivo dell'impostazione data da Shawky al racconto è di una visione piacevole ed emozionante, il contro è una certa superficialità di fondo, una mancanza di profondità nello sguardo del regista, che rinuncia a sottolineare gli aspetti più miserevoli e sofferti dei suoi personaggi. Lieve nel tono e nella confezione, con una fotografia che rischia di sfociare nel patinato, Yomeddine è un racconto delicato e fiabesco che scalda il cuore, ma raramente affonda il colpo trascurando di approfondire temi e luoghi che l'avrebbero meritato.
Movieplayer.it
3.0/5