Wounds, terzo film di Babak Anvari, è arrivato su Netflix dopo essere stato presentato al Sundance Film Festival e qualche mese dopo a Cannes all'interno della Quinzaine des Réalisateurs. Sulla piattaforma streaming possiamo trovare anche il secondo film del regista anglo-iraniano, L'ombra della paura, dalla quale questa ultima pellicola non potrebbe essere più diversa e qui nella nostra recensione di Wounds vi spiegheremo perché.
Adattamento cinematografico del romanzo di The Visible Filth di Nathan Ballingrud, questo film ha l'arduo compito di portare in scena una vera e propria discesa agli inferi (come la definisce Anvari stesso), la presa di potere di un'oscurità crescente, nonché la miserabile debolezza della natura umana. Temi non semplici che, uniti alla doverosa componente horror, rendono la realizzazione di un film come questo tutt'altro che una passeggiata.
La trama: precipitare all'inferno per volontà o caso
La storia al centro di Wounds ha un incipit piuttosto semplice: Will, interpretato da Armie Hammer, è un barista che spesso si ritrova a fare il turno di notte per racimolare qualche soldo in più, vivendo la vita alla giornata ed evitando di crearsi grandi aspettative. Una sera mentre si trova sul posto di lavoro con una sua amica, Alicia (Zazie Beetz), deve far fronte a una rissa tra un cliente abituale e un gruppo di adolescenti particolarmente su di giri. Prima di staccare, a cose sistemate, si accorge che i ragazzi hanno dimenticato nel locale un cellulare, Will lo mette in tasca e lo porta a casa con il proposito di rintracciare il proprietario il giorno seguente al suo risveglio.
Film horror in uscita: i più attesi del 2020
La mattina dopo, però, al cellulare iniziano ad arrivare strani messaggi che portano come allegato immagini e video inquietanti. Perplesso e scioccato, nonostante le insistenze della sua compagna Carrie (Dakota Johnson), Will sembra trovare un'enorme quantità di scuse che gli impediscono di consegnare il cellulare alla polizia come suggeritogli. Da quando lo smartphone smarrito entra in casa, una serie di avvenimenti e oscure presenze inizieranno a perseguitare, direttamente e indirettamente, buona parte dei personaggi in scena, in un'escalation di strani avvenimenti, pazzia e dolore a cui l'apatico protagonista sembra non riuscire, o non volere, opporsi.
Il Jump scare può bastare?
Un elemento sui cui Babak Anvari sembra aver fatto molto affidamento per scuotere lo spettatore è sicuramente il jump scare. Di salti dalla poltrona ce ne sono in quantità: ombre, insetti e un buon numero di altri elementi orrorifici, che non vi anticipiamo, la fanno da padrone per buona parte dei 94 minuti di film, forse nel tentativo di mantenere i nervi sempre tesi e l'attenzione alta su una storia che decolla presto, ma poi non si mantiene sempre in quota. Will è un uomo che con il susseguirsi degli eventi perde tutto: fidanzata, lavoro, amici, catturato da un'ossessione che lo rende ben presto folle, violento e privo di inibizioni morali.
La componente horror è un pretesto per raccontare qualcosa che sulla carta sembra più che interessante, ma a cui effettivamente manca una struttura solida. Il primo problema si incontra, infatti, nella sceneggiatura: dopo essere stato trascinato in tutta fretta nella vicenda, lo spettatore viene lasciato in attesa di quell'avvenimento scioccante e drammatico che sembra non arrivare mai, perso in un vortice di situazioni surreali difficilmente giustificate dalla crescente follia di un Armie Hammer non proprio alla sua migliore interpretazione. Aspetto positivo, invece, sono le atmosfere e i numerosi richiami al cinema horror giapponese in una New Orleans claustrofobica, distorta e intrigante.
Spaventare con la realtà
È, purtroppo, inevitabile a questo punto fare un immediato confronto con la precedente opera di Babak Anvari, L'ombra della paura, che risulta di sicuro più personale e coinvolgente, forte di un background storico reale (già di per se terrificante) e una storia sorannaturale ispirata al folklore, oltre che una caratterizzazione dei personaggi meglio riuscita, profonda e veritiera. Non sappiamo se sia il progressivo abbandono della realtà o il protagonista e i suoi comprimari, più superficiali e dalle labili motivazioni, il vero problema di Wounds, ma siamo comunque certi che questi elementi abbiano influito non poco sulla resa finale e sullo lavoro di Anvari. Il regista, forse perché fuori da un contesto a lui caro, non è riuscito a entrare nella mente dei suoi personaggi e svilupparli in modo da suscitare sufficiente interesse e curiosità da parte dello spettatore, negando loro quello spessore minimo necessario per renderli credibili. Ne risulta così un film fragile che non regge al peso delle sue stesse premesse, collassando, inevitabilmente, su se stesso, così come il suo protagonista.
Conclusioni
Per riassumere la recensione di Wounds possiamo affermare che questa pellicola, del regista anglo-iraniano Babak Anvari, non riesce a convincere ma si perde in una sceneggiatura che, dopo le ottime premesse, collassa su se stessa. Anche i personaggi ne risentono, la loro caratterizzazione risulta superficiale e poco convincente non riuscendo a catturare l’attenzione dello spettatore, mai veramente coinvolto emotivamente dalle vicende. Caratterizzato dal massiccio uso del jump scare, il film ha come nota positiva le ambientazioni che si ispirano chiaramente all’horror giapponese.
Perché ci piace
- Un’ambientazione intrigante e cupa, chiaro richiamo alle famose e amatissime pellicole horror nipponiche.
Cosa non va
- Una sceneggiatura che non sa tenere il ritmo necessario ad interessare e intrattenere lo spettatore, facendo così collassare la storia poco dopo le sue ottime premesse.
- Personaggi dalla caratterizzazione superficiale e poco convincente.