A Roma ormai d'abitune per ragioni sentimentali, il grande Willem Dafoe si è concesso ai cronisti non solo raccontando l'esperienza del film girato a fianco a Robert Redford, ma anche rivelando il suo rapporto con il cinema, soprattutto quello "apparentemente" indie.
Che cosa l'ha attratta nel ruolo che interpreta in In ostaggio, più ambiguo di quelli che interpreta solitamente?
Willem Dafoe: A interessarmi sin dal primo momento è stata la sceneggiatura. Ma non credo che i ruoli che scelgo siano monodimensionali: è vero che spesso sono cattivi, ma comunque cattivi con aspetti molto umani. Mi ha sempre attratto mettere in dicussione il tradizionale concetto di moralità.
Cosa le è piaciuto nella sceneggiatura?
Appena la lessi, pensai subito che non doveva essere opera di uno sceneggiatore, ma di un romanziere. E avevo ragione: si capiva dall'essenzialità della narrazione e dall'attenzione al dettaglio che si percepisce allostesso tempo. E' una storia che ha quella dose di familiarità che può attrarre il pubblico, ma tocca molti temi importanti della quotidianità. Inoltre, non è facile trovare storie così adulte (nella prospettiva di persone di mezza età) nel cinema americano.
Che differerenza c'è tra il cinema indipendente in cui ha lavorato negli anni '80 e quello di oggi?
Io credo che il cinema indipendente come lo conoscevamo non esista più. Oggi le grandi case di produzione hanno queste "appendici indipendenti" che ne hanno preso il posto. Certo nel caso di In ostaggio è stata una cosa positiva, per le possibilità di distribuzione che hanno permesso al film di raggiungere un pubblico più vasto.
Ma il punto è che la congiuntura economica ha cancellato del tutto una parte della produzione cinematografica. Chi ha le possibilità, fa film costosi, che incassano molto. Chi non le ha, fa film piccoli, sempre più piccoli, e spera di ottenerne un ricavo. Tutto ciò che era tra questi due estremi è scomparso.
Tra l'altro gran parte dei film "piccoli" di oggi è girato in digitale, e questo restringe la gamma di possibilità artistiche per un attore.
Come mai pensa questo? Ad esempio Michael Mann in Collateral ha dimostrato che si possono fare grandi cose col digitale...
Certo, ma io credo che in un certo senso il digitale limiti un attore perché puoi praticamente girare all'infinito. Certo, si può improvvisare liveramente, ma è molto più difficile disciplimasi e la composizione delle inquadrature è meno curata. Io sono legato a un concetto più tradizione di composizione delle inquadrature.
Com'è stato lavorare con Robert Redford?
Lui è una delle ragioni per cui ho accetto di fare il film, dato che era già coinvolto nel progetto. Mi ha interessato il fatto che fosse disposto a correre dei rischi con una piccola produzione, con un ruolo così diverso da quelli che ha interpretato ultimamente. In questo senso mi ha impressionato: una persona con tanti anni di carriera alle spalle ancora così "innocente" e piena di idealismo. Mi sembrava anche che Robert potesse dare al ruolo quello che serviva: come lui, il suo personaggio si guarda indietro e si domanda cosa ha dovuto sacrificare per ottenere il successo.