Warriors of The Rainbow: Wei Te-Sheng racconta la genesi del film

Dopo la presentazione, in concorso a Venezia, del suo terzo lungometraggio, abbiamo incontrato il regista taiwanese Wei Te-Sheng che ci ha spiegato la genesi della pellicola.

E' un Wei Te-Sheng cordiale e rilassato, quello che abbiamo incontrato a Venezia in occasione della presentazione del suo terzo film, l'action a sfondo storico Warriors Of The Rainbow: Seediq Bale. Una pellicola che racconta di uno scontro, di civilità prima che militare, poco noto in occidente, e che ha avuto il patrocinio, nel ruolo di produttore, di un nome eccellente come quello di John Woo. Sorprendentemente, il regista di The Killer, presente al Lido, ha voluto concederci due battute prima dell'incontro con Wei, parlando del suo ruolo in questa grande produzione (25.000 dollari di budget, già acquistato per il mercato inglese e francese) di marca taiwanese. "Sono felice di aver prodotto un film del genere, e sono molto soddisfatto del risultato", ha detto Woo. "E' un film che parla della lotta di un popolo per la propria libertà, ed è diretto benissimo. E' sorprendente anche come Wei sia riuscito a tirare fuori il meglio da attori che in larga parte sono non professionisti." Signor Wei, il suo precedente film, Cape No. 7, è stato un grande successo ed era una commedia musicale. Com'è stato passare a una pellicola dalle tematiche epiche? Wei Te-Sheng: Il mio lavoro è innanzitutto quello di raccontare storie: il primo step è quello di trovare una storia che valga la pena essere raccontata. Solo successivamente, penso a quale sia il modo migliore per raccontarla: nel mio film precedente, ho pensato alla chiave della commedia musicale, nonostante non sapessi nulla di musica. Anche in questo caso non sapevo niente di tecniche di guerra o di film d'azione, ma ho pensato che quella era l'unica chiave per raccontare questo tipo di storia.

Il film si ispira a eventi storici reali, ma quanto c'è di aderente alla storia, e quanto invece è frutto di fantasia?
La storia è vera, ma è una storia che si snoda su vari livelli, da quello collettivo a quello più personale. Mi servivano dei raccordi per questi diversi livelli, e questi raccordi sono i personaggi, inventati. Ovviamente, un altro elemento di differenziazione rispetto alla realtà è quello del tempo: nel film ho scelto di dilatare alcuni episodi che mi interessavano di più, e di comprimerne altri.

Secondo lei il film avrà qualche problema sul mercato asiatico? Si tratta pur sempre di una storia di colonizzazione che coinvolge paesi importanti come la Cina e soprattutto il Giappone.
Certo, in Giappone, ma forse anche in Cina, il film potrebbe suscitare delle discussioni, forse delle critiche; ma quella che ho raccontato è la storia, gli eventi così come si sono svolti. Inoltre, ciò che a me interessava erano i personaggi, ovvero il modo in cui delle persone normali vivevano quel particolare periodo storico. Non ci sono buoni o cattivi, nel film, non era questo ciò che volevo mostrare: mi interessavano piuttosto i sentimenti, le motivazioni profonde che possono spingere delle persone a un determinato tipo di scelte, scelte grandi, in questo caso. Nel film c'è da una parte un popolo che crede nell'arcobaleno, che ha la credenza che dopo la morte questo arcobaleno lo condurrà in un mondo migliore; dall'altra c'è un altro popolo che crede nel sole. Questi due popoli finiscono per combattersi, senza accorgersi che, in fondo, il cielo che contiene tanto il sole, quanto l'arcobaleno, è lo stesso. L'invito del film è quello di aprire le prospettive.

Quante ricerche ha richiesto, il film, in termine di studi sulle usanze delle tribù coinvolte?
Il mio primo contatto con le tribù al centro del film è stato un contatto visivo, attraverso un fumetto che ne narrava la storia. Mi colpirono i ricchissimi vestiti, oltre alle pettinature e ai tatuaggi. Ho lavorato soprattutto su questi elementi, e sulla gioia di questi indigeni di mostrare che anche a Taiwan, analogamente a quanto accade per gli Indiani d'America o le tribù Mahori della Nuova Zelanda, c'è un popolo orgoglioso delle proprie origini e delle proprie tradizioni. Un altro elemento su cui ho fatto molta ricerca sono state le musiche: contrariamente a quanto accade di solito per le musiche da film, spesso improntate all'armonia, quelle tribali che abbiamo usato si concentrano sul ritmo, sono orientate verso la terra, verso un ritorno al suolo.

Il film ricorda, per certi versi, pellicole epiche di produzione occidentale come Apocalypto o L'ultimo dei Mohicani. Aveva in mente qualche particolare modello, mentre girava?
In realtà, la mia vera ispirazione è stata un punto di vista, che era quello dei cacciatori. Il mio punto di partenza è stato quello. Per quanto riguarda eventuali modelli, è possibile che io, da spettatore di cinema, ne abbia inconsciamente assimilato alcuni, ma non è stato un processo consapevole.

Perché la scelta di far uscire il film in due parti per il mercato orientale, e di comprimerlo invece in un singolo film, più breve, per quello occidentale?
La scelta è dettata dal fatto che in Asia c'è un interesse maggiore per questa storia, quindi abbiamo potuto concentrarci sui dettagli senza il rischio di annoiare il pubblico; in Europa, invece, una scelta del genere sarebbe stata molto meno digeribile.