Uno schematico film di formazione
Dopo Full Metal Jacket costruire un film di formazione militare è diventata impresa ardua (ci ha provato ambiziosamente di recente, con risultati contrastanti, Sam Mendes, con Jarhead).
Dopo Toro scatenato e ancor più dopo Million dollar baby, architettare una pellicola che abbia come motore del suo dipanarsi narrativo il ring è da stupidi o da folli (nel senso benevolo del termine).
Justin Lin, quest anno anche alle prese con l'ultimo capitolo della serie The Fast and the Furious, si cimenta in un'impresa generosa, che include entrambi i campi narrativi.
La storia è infatti quella di un allievo cadetto della scuola di Annapolis, che si giocherà tutto il suo anno di apprendistato nella finale del torneo di boxe dell'accademia.
Lin condisce una storia semplice e di per sé efficace, con una serie di spunti narrativi che tentano di colorarne i contorni aprioristicamente.
Il giovane Jake Huard, protagonista della storia, è ovviamente socialmente di livello inferiore ai suoi compagni; nel battaglione c'è il solito "sergente di ferro" e il consueto "ciccione palla di lardo". A latere della vicenda si scorge un difficile rapporto padre/figlio, la cui conciliazione si legge fra le prime righe della narrazione, e l'immancabile storia sentimentale con un'avvenente cadetta.
Come già accennato, il merito di Lin è di insistere su una storia solida, lineare, dagli sfumati accenti patriottico/buonisti, ma tutto sommato accettabili nell'ottica di un impianto narrativo che non ha certo pretese di letture metatestuali o riferimenti allegorici.
D'altra parte, il demerito dello stesso regista, è di condire il tutto, intervenendo a gamba tesa sul fluire della storia, con una colonna sonora che incanala prepotentemente le immagini, costruendo una sovrabbondanza di senso che risulta fastidiosamente sproporzionato, e cercando pieghe del tessuto narrativo che mettano in evidenza il mito dell'american self made man, del contrasto sociale e caratteriale come motore del racconto.
L'incipit serrato e conciso, dà subito l'idea che la storia che si sta per affrontare non è tanto una vicenda d'introspezione, un grande dramma dei nostri tempi. Ci si trova piuttosto di fronte ad una sfida, un'esaltazione del volontarismo per il quale superare muri invalicabili, abbattere barriere, fisiche e sociali, fino ad un momento prima indistruttibili. Non è importante sapere, fino in fondo, "chi" sono i personaggi. Ciò che conta è sapere "cosa" sono, incasellarli in una certa categoria più o meno rispondente alla fruizione di quel dato elemento in quel dato momento narrativo.
Annapolis, a proposito del quale tutte le etichette reciteranno "drammatico" è in realtà uno staticissimo film d'azione, un film in cui i sentimenti vengono delineati grossolanamente, per fornire allo spettatore una chiave interpretativa, senza andare a fondo, scandagliare quel che sono le vere pulsioni che muovono la pellicola. L'interesse è tutt'altro, è quello di categorizzare un mondo, raccontare una storia semplice (e semplicistica) che preveda degli elementi fissi, che si vadano a incastrare in un rapporto di azione-reazione ben collaudato e privo di troppe pretese.
E dunque si ritrovano le sequenze di montaggio funzionali alla creazione di un pathos, di un climax d'attesa adrenalinico, ma non sinceramente partecipativo.
Il ring, per il protagonista, in quest ottica, si trasforma nella metafora della vita, un incassare con estrema dignità per poi sferrare il montante decisivo. E la dinamica diventa, involontariamente, anche paradigma di un film, che incassa dignitosamente il rischio della banalità per sferrare, qua e là, qualche colpo ben assestato. Ma, così come nel match decisivo per Jake Huard, questa tattica potrebbe non risultare quella vincente.