Una sconosciuta a Tunisi e l'emancipazione femminile secondo Mehdi Barsaoui

A quasi un anno dall'anteprima a Venezia 81, il regista tunisino racconta il suo film, finalmente nelle nostre sale grazie a I Wonder Pictures.

Fatma Sfar in una scena di Una sconosciuta a Tunisi

Con il suo esordio al lungometraggio, Un Figlio, presentato nel 2019 alla Mostra d'Arte Cinematografica di Venezia nel concorso Orizzonti, il regista tunisino Mehdi Barsaoui si era fatto notare nel panorama del cinema internazionale, conquistando anche un Premio al Lido per il suo protagonista Sami Bouajila. Classe 1984, dopo la laurea a Tunisi, ha completato la sua formazione al DAMS di Bologna e per il suo secondo film, alla scorsa edizione della Mostra, la numero 81, è tornato ad Orizzonti con Aïcha, in cui racconta un viaggio di emancipazione femminile e ricerca di libertà guidato da un'attrice ipnotica, da lui scoperta, Fatma Sfar.

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Fatma Sfar in una scena di Una sconosciuta a Tunisi

Tratto da un vero fatto di cronaca per cui una ragazza si finse morta dopo un incidente stradale, il film accompagna la protagonista, una quasi Cenerentola moderna, che attraverso una presunta morte, si dirige alla scoperta della grande città e dell'ipotetica realizzazione dei sogni di libertà. Per Aya che diventa Amira, arriva però presto la presa di coscienza che non è tutto oro quel che luccica, quando si trova invischiata dentro un crimine che fonda le sue radici nella corruzione della polizia e della società. Inizia così il vero percorso, quello di ricerca di una libertà interiore. In occasione dell'uscita nelle sale italiane del film, distribuito da I Wonder Pictures con il titolo Una sconosciuta a Tunisi, raggiungiamo telefonicamente Barsaoui per un'intervista tutta in italiano (il regista non ha solo studiato in Italia ma è di madre italiana) per scoprire non solo l'origine e gli intenti del film ma anche per fare un bilancio sul viaggio della pellicola in giro per il mondo.

Intervista a Mehdi Barsaoui

Questo film si ispira ad un fatto di cronaca, anche se nella realtà, la "morte" della ragazza è durata tre giorni. Come lo hai concepito a partire da questo avvenimento?
L'idea del film è venuta un po' quando ero in promozione del mio primo film, Un figlio, e ho sentito parlare di questo fatto di cronaca, di questa ragazza che ha voluto fingersi morta per testare un po' l'amore dei suoi genitori. Mi ha colpito, ma non più di tanto. Sono passati dei mesi e poi, con mia moglie, abbiamo saputo che saremmo diventati genitori di una bambina. Non so cosa sia scattato nella mia testa, ma ho pensato a quel padre che qualche mese prima si era trovato con una figlia che si era finta morta per testare il suo amore. Mi sono chiesto: "E se mia figlia un giorno mi facesse la stessa cosa?" E penso che lì sia stato un po' il punto di partenza del film, di questa ragazza che, dopo essere sopravvissuta, decide di vivere... attraverso la morte. Ho trovato quest'idea molto cinematografica, e da lì è iniziato tutto. È stato il punto di partenza di questa storia. Anche se, ecco, è tutto finto: nel senso che l'unica cosa vera è quel fatto di cronaca che mi ha ispirato. L'idea iniziale non è mia, ma tutto il resto sì.

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Fatma Sfar in una scena di Una Sconosciuta a Tunisi

A proposito di finzione, come hai deciso di giocare anche sull'idea che questa storia potesse ricalcare, all'inizio, una favola? La possibilità di una Cenerentola che si trova invece, paradossalmente, a scoprire che la libertà che cercava non è in un luogo magico, ma in se stessa.
Per essere ancora una volta onesto: il film è un racconto molto classico. Noi sogniamo qualcosa, c'è una prima parte di sogno, ma poi quel sogno diventa un incubo. È il classico racconto della favola. Lei sogna Tunisi, la capitale, che per lei è sinonimo di libertà ed emancipazione. Pensa che lì sarà finalmente libera. All'inizio Tunisi è colorata, accogliente - e ho fatto di tutto per girarla lontano dai cliché delle capitali arabe o musulmane: ho voluto mostrarla come una città moderna, con discoteche, ragazze libere. Ma come in ogni favola, il sogno si spezza: la città mostra la sua vera faccia, quella più underground, dove tutto si fa più oscuro. E lì comincia il vero percorso della protagonista, la sua presa di coscienza. Si rende conto che la liberazione che cercava era tutta una finzione. E tutto inizia davvero da quel caso in discoteca, da quel crimine: è lì che parte la vera emancipazione.

L'emancipazione femminile come atto rivoluzionario

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Fatma Sfar in una scena di Una sconosciuta a Tunisi

Questo film è diventato tuo quando hai scoperto che stavi aspettando una bambina. C'è questa parte molto bella, ma anche molto amara, nel film: il confronto con i genitori. Potevi anche non metterla, ma hai deciso di farlo, ed è una scena dolorosa, molto consapevole. Che percorso c'è stato, anche da genitore oltre che da regista?
Ottima domanda. Però non sono molto d'accordo sul fatto che potevo non metterla. Anzi, era importantissimo per me. Perché dà un'impronta moderna al film. Devo spiegare: purtroppo in Tunisia, come in molti paesi arabi e musulmani, confrontarsi con i genitori è impensabile. I genitori sono sacri. Lo dice il Corano, lo dice la società, lo dice la pressione culturale. Dire di no a un genitore, come fa la protagonista, è un atto rivoluzionario. Lei viene da una famiglia molto tradizionale. Quello che fa, cioè dire "no", è il vero primo passo verso la sua libertà. E si libera dalla colpa verso i genitori, verso Karim, che in realtà non le ha fatto nulla. Per questo non volevo un happy end finto. Non volevo che finisse con un perdono forzato, tipo: "Tutto bene, non è successo niente." No. È successo tutto. E non voglio perdonare. O almeno, non ancora.

Un tema universale...
In questo senso, il film parla molto anche di tutte le donne, non solo tunisine. Questo difficile percorso di emancipazione è molto universale, no? Sì, purtroppo sì. Quando guardiamo cosa succede negli Stati Uniti o altrove, vediamo che le donne sono sempre le prime colpite da questa corrente reazionaria. Devono sempre lottare, sempre chiedere, sempre proteggere i loro diritti. Per gli uomini non è lo stesso. La Tunisia è uno dei paesi arabi dove le donne hanno più libertà, ma anche lì il lavoro non è finito. Dobbiamo sempre andare avanti. Per me era importantissimo dare questo messaggio. Perché se un giorno mia figlia vivesse in Tunisia, vorrei che fosse completamente libera.

Giocare con i generi

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Fatma Sfar e Nidhal Saadi in una scena di Una sconosciuta a Tunisi

Parlando invece del tuo approccio visivo, questo film cambia faccia molte volte. È multigenere, cambia registro, cambia approccio. Come hai giocato dentro questa varietà?
È stata la sceneggiatura a imporre e guidare il genere e la messa in scena. Il film è fatto a capitoli, come tappe nella vita della protagonista. Per me era importante fare scelte visive che raccontassero, senza sottolineare troppo. Era importantissimo che le immagini parlassero da sole e che dessero delle informazioni sulla protagonista e sul suo percorso Per esempio, Tozeur, nel sud della Tunisia, è una città colorata, anche il deserto è un po' rosso, come nell'Africa Sub-sahariana ma insieme al direttore della fotografia, Antoine Héberlé, abbiamo lavorato per togliere tutto questo colore nella città. Mi interessava che Tozeur venisse percepita come una città non bella, doveva essere una città da odiare così come la odia la protagonista.

Sono importanti i luoghi.
Durante i sopralluoghi, abbiamo scelto di girare nei luoghi meno belli, di proposito. E all'inizio del film, la macchina da presa è sempre davanti a lei, è come se fosse sempre un po' un ostacolo e lei è sempre in ritardo, non ce la fa, è sempre di corsa. Quando arriviamo a Tunisi, diventa il contrario, invece la macchina passa dietro di lei: scopriamo la città e la guardiamo con i suoi occhi, dal suo punto di vista che ho sempre rispettato. Il crimine commesso in discoteca, ad esempio, lo scopriamo con lei, non prima. Era molto importante rispettare sempre il suo punto di vista.

Dalla Mostra di Venezia alla sala cinematografica

Da Venezia a oggi: che percorso è stato con questo film? Che cosa ti porti dentro?
È stato bellissimo. È come se fosse il mio primo vero film. Un figlio è stato a Venezia, ma poi io sono stato colpito dal Covid durante la promozione nelle sale, e quindi non ho potuto vivere l'esperienza a pieno e viaggiare con il film. Con questo, invece, ho viaggiato tanto ed accompagnato il film in posti che sognavo di visitare: Argentina, Brasile, India. E ho visto reazioni simili ovunque. È incredibile come, alla fine, siamo molto più simili di quanto pensiamo, a differenza di quel che i politici vogliono farci credere. Il potere dell'emozione cinematografica è proprio questo: unire. E questa è la cosa più bella che mi porterò con me.