Una madre
In una piccola fattoria nell'entroterra algerino una donna sta seppellendo il proprio figlio Tarik, morto in circostanze misteriose probabilmente in seguito ad un litigio con il fratello maggiore Ali, militante in un gruppo clandestino islamista. Una pratica, quella di seppellire i morti, cui la donna non ha voluto sottrarsi nonostante la religione musulmana imponga questa incombenza ai soli uomini. Ouardia sospetta che Ali abbia in qualche modo contribuito alla morte del fratello per via dell'amore conteso di una donna che poi si apprende essere in dolce attesa. Conoscendo il carattere austero della madre, Ali manda uno dei suoi uomini a farle da guardiano, un ragazzo che si ritroverà testimone di una tragedia familiare quando Ali tornerà a casa dalla madre con la bimba appena nata e con una ferita gravissima ad una gamba.
Come nella migliore tradizione della tragedia greca, la regista e interprete algerina del film Djamila Sahraoui porta sul grande schermo una storia di rabbia e di vendetta che travolge i sentimenti di una madre nei confronti dei due figli in una terra devastata dalla guerra. L'Algeria è un Paese in lotta con se stesso come in lotta con se stessa è la donna protagonista di questo dramma familiare silenziosamente lancinante. Ouardia è una donna che vorrebbe morire tanto è il dolore per la perdita che ha subito ma che a dispetto di questo suo desiderio trova comunque un motivo per continuare a vivere con la morte nel cuore, nonostante la rabbia e l'angoscia si siano insinuate pericolosamente in lei. Per continuare a vivere da sola in un posto pieno di ricordi e rancore come quello è necessaria tanta forza d'animo, tanta voglia di ricominciare, tanto spirito di sacrificio. Ma la terra arida e inospitale dell'Algeria oltre ad offrire una guerra senza fine può offrire tanto a chi è capace di amarla e di prendersene cura con amore e dedizione, allo stesso modo in cui da un amore conteso può nascere una nuova vita, simbolo di speranza e di futuro.Tarik e Ali, due uomini che amano in modo diverso la stessa madre, la stessa donna e la stessa terra ma che pur non uccidendosi materialmente a vicenda trovano la morte per un motivo che è solo accennato dalla sceneggiatura, per sfortuna forse, o semplicemente perché pur non prendendo mai una posizione netta la loro madre ha deciso inconsciamente che solo in cielo i due potranno trovare finalmente la pace. Ouardia parla pochissimo ma agisce, inizia a coltivare i campi, ad accudire la nipotina, a guardare avanti anziché pensare al passato. Narrato e ambientato nello stesso luogo, come palcoscenico della tragedia che si consuma di fronte agli occhi dello spettatore, Yema (che in algerino significa 'madre') è il secondo lungometraggio della sessantaduenne regista algerina che non nasconde la sua grande passione per il teatro confezionando un dramma dallo stile minimalista e asciutto che non lascia spazio ai dialoghi ma parla per immagini e per simboli. Il finale tragico si fa ad un certo punto inevitabile e quasi catartico, con una madre che pur di riavere accanto i suoi due figli senza il seme della rabbia a corrodere il loro cuore accetta la loro morte come contropartita di una pace interiore solo apparente.
Movieplayer.it
3.0/5