Recensione El abrazo partido (2004)

Un esempio di commedia di spessore, che nonostante i difetti di sceneggiatura si rivela decisamente interessante per la sua urgenza di raccontare "piccole" storie in cui troviamo riflessi temi universali.

Una galleria di volti e di storie

Ariel, ventenne ebreo di Buenos Aires, vive e lavora con sua madre nella "galleria", centro commerciale in cui vive un multietnico campionario di varia umanità, una specie di microcosmo separato che, per chi ci vive, rappresenta un po' il proprio mondo: si conoscono tutti, nella galleria, da Ariel a suo fratello Joseph, che ha un negozio poco distante, fino al cartolaio Osvaldo e a Rita, fidanzata "matura" del protagonista. Ariel, che aiuta sua madre nella conduzione di un negozio di biancheria intima, non ha mai conosciuto suo padre, che se ne andò in Israele poco dopo la sua nascita; ma un giorno, l'uomo si rifà vivo e manifesta l'intenzione di conoscere i figli.

In questo suo quarto film, premiato con l'Orso d'Argento all'ultimo Festival di Berlino, il regista argentino Daniel Burman decide di ambientare l'azione quasi interamente nel chiuso del centro commerciale: sono decisamente pochi gli esterni, e il contesto urbano che fa da sfondo alla vicenda è più immaginato che mostrato. Così come sono solo suggerite (ma sempre presenti in sottofondo) le dinamiche di cambiamento sociale che animano il tessuto urbano, l'ansia dei personaggi di muoversi verso un futuro diverso, il lento disintegrarsi di una realtà conosciuta unito all'incertezza di ciò che verrà. Il passato del protagonista torna a bussare alla sua porta proprio in questo momento di transizione, in cui egli stesso sta facendo di tutto per emigrare in Europa, verso una vita diversa, lasciando tutto ciò che ha conosciuto finora. Un'ansia che accomuna un po' tutti i personaggi, questa del cambiamento, l'Europa vista come il "sogno" di un futuro diverso, il lento disfarsi di una realtà conosciuta e sicura, parallelamente alla crescita del protagonista, che lo stesso regista ha definito "un adolescente in ritardo". Il registro usato per narrare la vicenda è da commedia, tutto basato sull'efficacia dei dialoghi (alcuni veramente molto riusciti), mentre la regia è nervosa, e segue i personaggi con taglio quasi nevrotico: il frequente uso della camera a spalla è decisamente funzionale al clima di sotterranea tensione, confusione e spaesamento che il film vuole esprimere. Il punto debole della pellicola risiede però in una sceneggiatura tutt'altro che perfetta: momenti molto riusciti, con dialoghi di ottima fattura e situazioni di amaro divertimento, debitrici a tutta una tradizione di commedia "impegnata" (soprattutto statunitense), si alternano ad altre in cui si nota una certa stanchezza, un'incapacità di mantenere viva l'attenzione dello spettatore dovuta a un certo didascalismo che affiora qua e là. La "tensione" per l'imminente ricongiungimento del protagonista con il genitore resta forse un po' troppo sullo sfondo, mentre la conclusione della vicenda, con la conseguente morale, sembrano un po' semplicistiche.
Da segnalare comunque l'ottima interpretazione del protagonista Daniel Hendler, intenso e convincente, mentre il resto del cast regge il gioco "corale" della sceneggiatura con simpatia e professionalità.

Un esempio, in definitiva, di commedia di spessore, che nonostante i suoi difetti si rivela decisamente interessante per la sua urgenza di raccontare "piccole" storie in cui troviamo riflessi temi universali: un'altra piccola pillola concessaci dalla nostra distribuzione (dopo gli ottimi Valentin e Kamchatka) di una cinematografia ricca di stimoli narrativi ed estetici sicuramente da non sottovalutare.

Movieplayer.it

3.0/5