Una gaia parabola neonazista
Dopo aver ottenuto riconoscimenti in diversi festival internazionali (tra cui il premio per il Miglior film alle ultime edizioni del Festival del Cinema Fantastico di Bruxells e del Courmayeur Noir in Festival), Le mele di Adamo, terzo lungometraggio da regista del danese Anders Thomas Jensen, arriva nelle sale italiane distribuito da Teodora Film per raccontarci la storia di Adamo, un neonazista appena uscito di prigione che accetta di trascorrere la libertà vigilata in una comunità di recupero immersa nella tranquilla campagna danese. La piccola comunità è gestita dal pastore protestante Ivan, un personaggio tanto ingenuo quanto ottimista, convinto di poter far emergere quanto di buono c'è in Adamo. Inutile dire che quest'ultimo, che tra i pochi oggetti personali ha con sè un ritratto del Führer, non ci sta ed è così che lo scontro tra i due si farà sempre più acceso ed aspro e si combatterà su due fronti opposti: Adamo utilizzerà i mezzi violenti che gli sono propri, mentre Ivan sceglierà sempre di porgere l'altra guancia convinto che il Diavolo sia sempre pronto a metterlo alla prova.
A fare da contorno a questa sfida quasi biblica tra il Bene e il Male, un gruppo di personaggi sfaccettati e difficilmente inquadrabili nelle dicotomia di cui sopra - quali un rapinatore arabo (poco) pentito ma dal grilletto facile, un ex campione di tennis sovrappeso, una donna incinta con problemi di alcool e un gruppo di naziskin non troppo convinti - la cui presenza porterà ad eventi inaspettati e surreali.
E' evidente la volontà di Jensen di giocare sulle contraddizioni e sugli opposti allo scopo di dimostrare l'impossibilità di schematazzazione dei sentimenti e comportamenti umani in ruoli predefiniti, fossero essi anche divini: la sua riflessione sulla fede, sulla redenzione e sul rovesciamento delle parti all'interno di un microcosmo precostruito è originale e affascinante. Ma diremmo una bugia se volessimo trovare in questo il merito autentico di questo film, perchè la verità risiede altrove, ovvero nell'humor nero graffiante e dissacrante, nelle tante sequenze surreali in cui la violenza si trasforma in risata e nel politicamente scorretto affidato con furbizia alle figure, apparentemente rassicuranti, del prete e del dottore.
Quello che il regista sembra suggerirci è che quando male e bene si confondono, così come verità e falsità, realtà e illusione, non rimane altro che farci una sana risata. E forse, di questi tempi, non è una cattiva idea.
Movieplayer.it
3.0/5