Recensione Ringu (1998)

Film di culto da noi, straordinario successo di pubblico in Giappone, un fenomeno di massa con pochi precedenti nella terra del Sol Levante: perché il pubblico giapponese ha amato tanto questo film?

Un cerchio di morte

E' il blu, il colore predominante di Ringu, il film culto diretto nel 1998 da Hideo Nakata: blu come il mare che appare, minaccioso ma affascinante, nei titoli di testa, custode di segreti che forse sarebbe meglio non portare mai a galla; blu come la luce livida, inquietante, che illumina gli spaventati volti dei protagonisti quando vengono a contatto con l'ignoto. Un blu che, nella forma dell'interminabile distesa dell'oceano, separa il centro abitato in cui la maledizione della cassetta killer si sta propagando, dall'isola in cui forse essa ha avuto inizio; un blu che sfuma nel nero seppia, tenebra pulsante di vita vissuta e di sofferenza patita, nella dimora della piccola Sadako, inquieto spirito in cerca di qualcosa che sarebbe riduttivo definire "vendetta".

E' proprio nella grande suggestione delle sue immagini e delle sue atmosfere la forza principale di questo film, successo senza precedenti in Giappone e iniziatore di un fenomeno di massa con pochi precedenti nella terra del Sol Levante (si contano due sequel, un prequel, un manga, un videogioco ad esso ispirato e due remake, quello, noto, americano ed uno, semisconosciuto, realizzato in Corea). Sono relativamente poche, qui, le scene di "spavento" nel senso che comunemente siamo abituati ad attribuire a questo termine in occidente: pur trattandosi indiscutibilmente di un horror, per tematiche e finalità, la paura trasmessa da Ringu è qualcosa di più sottile, che gioca ad un livello più profondo di quella dei tanti film occidentali con argomenti analoghi. Quello che questo film trasmette è un diffuso senso di inquietudine, dapprima solo avvertibile ma poi sempre crescente, a cui è impossibile sottrarsi; un'inquietudine che trova la sua forza non solo nel "non visto", ma anche e soprattutto nel "non spiegato", in una struttura che tende ad accumulare elementi enigmatici rifiutando di dar loro una vera spiegazione. Sono tante le scene di difficile lettura, a cominciare dal filmato assassino, montaggio di sequenze scollegate tra loro e apparentemente prive di significato, ma proprio per questo di grande impatto; per continuare con alcuni passaggi volutamente oscuri, a cui la sceneggiatura rifiuta di dare un senso logico. I personaggi sembrano muoversi per intuizioni improvvise, portate a volte dalle capacità sovrannaturali di alcuni di loro, a volte da elementi ancora più impalpabili; la sensazione generale è spesso quella di muoversi in un universo onirico, con la mancanza di logica (o meglio, con la logica alternativa) che è tipica dei sogni. Non bisogna pensare, però, che si tratti esclusivamente di un film visionario, che non ha nessun contatto con la realtà o non approfondisce i suoi personaggi: al contrario, siamo di fronte a una pellicola che è profondamente radicata nel tessuto sociale in cui è nata, che è quello giapponese. Troviamo, così, un diffuso senso di malinconia e di solitudine in tutti i protagonisti, unito alla ricerca, disperata ma necessaria, del contatto umano come contraltare dell'angoscia. Una ricerca che accomuna tutti i personaggi, vivi e morti: così Reiko, vedendo avvicinarsi lo scadere del settimo giorno che dovrebbe ucciderla, si spoglia di qualsiasi condizionamento ed arriva ad invocare disperatamente la presenza, in quello che sarà l'attimo finale, del suo ex-marito; e così quest'ultimo, uomo a sua volta solitario ma ancora estremamente legato a Reiko e a suo figlio, decide di aiutare la donna, non esitando ad anteporre la salvezza di lei e del bambino alla sua. Perché non è tanto il morire che spaventa, quanto il morire in solitudine: la stessa sorte che è toccata alla piccola Sadako, personaggio a cui la sofferenza ha cancellato il volto, e il cui occhio, che ha fissato l'abisso della solitudine, non può che uccidere. Tematiche, queste, che sono da sempre proprie di certa cinematografia giapponese, e che torneranno, portate alle estreme conseguenze, in un film pregno di motivi esistenziali e di senso di ineluttabilità come Kairo di Kiyoshi Kurosawa.

Il finale del film, "aperto" e di grande impatto visivo ed emozionale, non si dimentica facilmente; solo allora riusciamo a comprendere a pieno il senso del titolo, con tutta la sua ambiguità. Un finale che lascia la porta aperta al prevedibile sequel (che l'anno dopo, puntualmente, apparirà nelle sale giapponesi), ma che, preso a sé, si fissa comunque indelebilmente nella memoria dello spettatore, lasciandovi una terribile incertezza ed implicazioni etiche e morali non di poco conto.

Un film riuscito ed intelligente, quindi, il cui straordinario ma meritato successo ci dà la misura dell'abisso che separa il nostro modo di intendere la paura (basato sull'attribuzione di una forma, per quanto aliena, all'ignoto, in modo che esso diventi noto e ci sia riconoscibile) da quello orientale (più impalpabile e filosofico, che fa nascere la paura da realtà vicine alla società contemporanea, e attribuisce all'entità spaventosa motivazioni e sentimenti molto vicini a quelli umani). Una distanza che riflette le differenze socio-culturali tra le diverse realtà, ma che non ci impedisce di cogliere la complessità, lo spessore e il carattere profondamente sentito di opere come questa: speriamo che la (discutibile) ondata di remake che si sta preparando ad invadere le nostre sale (dopo The Ring sono attese le versioni occidentali di The Eye e Kairo) serva almeno a stimolare la curiosità degli spettatori occidentali (almeno di quelli mentalmente più aperti) verso questo tipo di pellicole.

Movieplayer.it

4.0/5