Tutti pazzi per Monnezza?
Ritorna nella sale una delle figure più celebri di un cinema popolare che più di venti anni fa seppe ritagliarsi uno spazio non trascurabile nei gusti del pubblico italiano: il poliziotto in borghese dai modi spicci, la parolaccia facile e dalle buone intenzioni. Logicamente stiamo parlando di Tomas Milian, alias Nico Giraldi. In a una sorta di proseguimento ideale i suoi panni dismessi per lungo tempo, sono stati indossati dal romano doc: un Claudio Amendola[/PEOPLE] quasi eccessivamente intimidito dal rispetto che nutre verso il personaggio originale, mentre a caratteristi, comici e volti televisivi vari, sono stati affidati i personaggi di contorno del mondo mondezziano: ladri squattrinati dal cuore tenero, poliziotti corrotti, avvocati e politici di alto rango.
Si parlerà molto, forse troppo, della legittimità di tale operazione, più che del valore intrinseco del film. Si parlerà di linguaggio, di cinema di serie b,c, z, di rivalutazione e di snobismo intellettuale. Niente da ridire, ma non saremo noi, in questa sede, ad assumere la posizione del "si è ridotto a questo il cinema italiano?", né ad inserirci nella disputa sociologico-estetica sul sì e il no a quello che viene definito cinema trash. Ciò che è in discussione, dal nostro punto di vista è il film stesso, il suo potenziale appeal (reale e non mediatico), la sua scrittura, la sua direzione, le interpretazioni del cast. Il risultato di questa ideale discussione, è che l'operazione si mostra cinematograficamente debole, a tratti noiosa, il più delle volte lontana dal cinema che intende omaggiare, probabilmente solo per motivi temporali. In questo Il ritorno del Monnezza, duole infatti dire che si respira un'aria un po' involontariamente squalliduccia e più volte ci si chiede se c'è un pubblico oggigiorno per il Giraldi.
Quel cinema italiano di genere che l'ha battezzato era fatto di ottime maestranze, centinaia di idee più o meno interessanti, ma soprattutto di tante piccole amabili soluzioni spontanee e frizzanti tale che anche le potenziali inverosimiglianze, le sgrammaticature, le continue ripetizioni o le scorciatoie narrative, avevano un loro particolare gusto genuino, gusto del tutto estraneo a quest'operazione dove si respira continuamente un'aria artefatta a tutti i livelli. E' questa la più grande mancanza del film dei fratelli Vanzina: un'anima che fornisca ad una pellicola, per forza di cose piuttosto debole, un elemento di interesse, o meglio di intrattenimento. E' probabile anche che i precedenti episodi con Tomas Milian (alcuni dei quali francamente bruttini assai, non mentiamoci) fossero di una godibilità non presente in questo suo ritorno nel terzo millennio, in virtù di una suggestione più romantica che reale, frutto di un retaggio educativo che ha caricato tali titoli di un valore sommamente trasgressivo. Di certo la figura del Monnezza in quel cinema e in quella società aveva un altro valore.
Il poliziesco italiano (cornice entro la quale, in realtà, andrebbero operate alcune fondamentali distinzioni qualitative) come l'erotismo di bassa lega dilagante nel periodo o la commedia più scanzonata e come anche, perché no, il celebre programma televisivo Colpo Grosso, per citare le derive più fieramente trash del periodo, hanno rappresentato in qualche modo un tratto distintivo della generazione di chi vi scrive, uno sdoganamento adolescenziale dal controllo familiare sul vedibile televisivo, dalla mitica dicitura "la visione di questo film è consigliata esclusivamente ad un pubblico adulto". Reale o no che sia questa percezione , è questa a creare, la maggiore distanza tra le due operazioni, relegando questo ritorno alla nostalgia anacronistica, senza per questo assumere la tanto bistrattata posizione snobistica della critica. Ma d'altronde, quando il buco nella serratura diventa una voragine espositiva e perdono di significato le Ubalde e le Giovannone da spiare, chi si strugge più per un poliziotto in tuta da meccanico che ci invita a farci "una padella di cazzi nostri"?