Recensione SoloMetro (2007)

Cucurnia si muove con discreta disinvoltura negli spazi tipici della metropoli, ma la sensazione è più quella di un compito svolto in maniera appena dignitosa che di una regia particolarmente ispirata.

Trovarsi un giorno a Roma

Mandato allo sbaraglio in una calda estate che riesce a portare al cinema solo il grande pubblico dei blockbuster, Solometro arriva nelle sale per raccontare in tono tragicomico una serie di storie, che si sfiorano soltanto le une con le altre ma finiscono in qualche modo col condizionarsi, di uomini e donne che si incontrano per caso a Roma, costretti nella metropoli romana a calarsi in ruoli non propri che impediscono di vivere con onestà ciò che accade loro. Il titolo del film si riferisce al nome di un giornale gratuito immaginario, uno di quelli che invadono sempre di più le città di tutto il mondo riassumendo in poche battute, recuperate per lo più da agenzie, notizie importanti o bizzarre provenienti da ogni parte del globo, ma soprattutto locali, per avvicinare i cittadini a quel che succede loro intorno. Sarà proprio quel fantomatico giornale ad accompagnare i protagonisti in una giornata che cambierà in qualche modo le loro vite e a riportare, coi soliti titoli ad effetto che campeggiano nelle prime pagine, l'epilogo delle vicende che il film ha raccontato.

Opera prima del pupillo di Mario Monicelli (che nel film compare in un brevissimo cameo in metropolitana), Solometro di Marco Cucurnia è una commedia corale che raggruppa una serie di stereotipi (la prostituta insoddisfatta, il ragazzino di provincia che viene assorbito nel caos della città, il distinto ragazzo di colore che, vittima della discriminazione, decide di vendicarsi nel peggiore de modi), ma tenta di distinguersi con un finale non scontato, seppur non particolarmente brillante. Cucurnia si muove con discreta disinvoltura negli spazi tipici della metropoli (dai fast food ai locali più in, dalle ville dell'alta borghesia alle stazioni della metropolitana e agli appartamenti più squallidi dove si consuma l'illusione di un amore veloce), ma la sensazione è più quella di un compito svolto in maniera appena dignitosa che di una regia particolarmente ispirata. La sua idea di metropoli è quella di una città sempre in movimento (la ricerca continua di treni, metropolitane, auto e moto è lì a confermarcelo) che nasconde l'immobilità delle persone che la abitano, come i protagonisti della storia, costretti ad interpretare personaggi fasulli, che si sforzano di comportarsi in maniera prevedibile.

Nulla di nuovo quindi sotto il sole, con una facile comicità che non convince mai e provvede soltanto ad allontanare lo spettatore dai discorsi più impegnati, ma mai realmente incisivi, che si nascondono dietro ogni storia narrata. Dei padri farabutti, delle squillo e delle loro miserabili vite, dei ragazzi di colore dal cuore d'oro ma vittime della solita, volgare discriminazione non sentivamo il bisogno perché quando non si aggiunge un punto di vista nuovo a quanto già raccontato non si può certo essere presi sul serio. E non aiutano affatto le prove imbarazzanti di tutto il parco attori completamente fuori controllo, compresi quelli più blasonati come, in ruoli seppur piccoli, i senatori Michele Placido, il quale aggiunge fiaccamente alla sua galleria di personaggi un'altra figura esagerata di uomo sopra le righe, ed Eleonora Giorgi, tornata al cinema con così tanta ruggine addosso da coprire anche il suo fascino. Una nota di merito soltanto per Anna Valle che rivela una buona espressività, ma è ancora un passo in là dal divenire una vera attrice.