Recensione La vita è un miracolo (2004)

Quasi dieci anni dopo 'Underground', Kusturica torna ad occuparsi del conflitto dei Balcani, mescolando le influenze shakespeariane da sempre presenti nel suo cinema con un tocco di commedia debitore dei film di Frank Capra.

Tra Shakespeare e Frank Capra

Siamo nel 1992. Luka, ingegnere serbo di Belgrado, si è stabilito in un villaggio tra i monti della Bosnia, insieme alla moglie Jadranka e al figlio Milos. L'uomo sta lavorando al progetto governativo della ferrovia, che dovrebbe rendere la regione un paradiso turistico: tuttavia, malgrado l'innato ottimismo di Luka, i segnali di guerra, nel paese, sono sempre più forti. Il conflitto infine scoppia in tutta la sua violenza, e Luka viene abbandonato dalla moglie, fuggita con un musicista, e dal figlio partito per il fronte. Quando quest'ultimo viene fatto prigioniero, Luka si vede "consegnare" dall'esercito serbo Sabaha, prigioniera musulmana che dovrà servire da baratto per la liberazione di Milos: l'ingegnere, suo malgrado, finirà per innamorarsi della donna.

Quasi dieci anni dopo il maestoso Underground, vincitore a Cannes e forse la sua opera più fortunata, Emir Kusturica torna ad occuparsi del conflitto dei Balcani, adottando stavolta un tocco da commedia che tuttavia nulla sottrae al suo stile barocco ed eccessivo. Il cinema del regista si contamina qui con una narrazione che sembra figlia dei film di Frank Capra (autore "adocchiato" fin dal titolo), influenza che si evidenzia soprattutto nel carattere del protagonista, inguaribile ottimista che si rifiuta ostinatamente di credere all'imminente scoppio della guerra, e che mantiene una fiducia nelle persone che non vacilla neanche di fronte agli inquietanti segnali portati dalla televisione, o alla prossima partenza del figlio. E' in effetti sorprendente il tocco "leggero", consapevolmente sdrammatizzante, che la sceneggiatura adotta per narrare una vicenda che ha per teatro uno dei più sanguinosi conflitti degli ultimi anni, sul cui sfondo vediamo svilupparsi una storia d'amore che sembra una singolare modernizzazione del Romeo e Giulietta shakespeariano. E' proprio l'improbabile rapporto tra Luka e Sabaha a rappresentare il cuore del film, dopo una prima parte in cui Kusturica ci mostra la sua consueta galleria di personaggi e situazioni grottesche, fuori dal comune: un rutilante e coloratissimo susseguirsi di orsi assassini, muli tristi che bloccano la ferrovia, fantasmi di vecchi custodi, partite di calcio finite in rissa sulle note di arie di musica lirica, danze condite da colpi di arma da fuoco e da pratiche sadomasochiste, in un continuo caleidoscopio che sembra in qualche modo preparare alla ben più drammatica "esplosione" seguente, quella di un conflitto lasciato rigorosamente fuori campo ma assolutamente "presente" e avvertibile nella nuova vita di Luka, nelle continue esplosioni che impietosamente infrangono la fiducia del protagonista e gli ricordano la realtà di una guerra che gli ha già cambiato la vita. Nella seconda parte del film, così, il tocco "alla Capra", sintetizzato da una storia d'amore incredibilmente tenera, basata su una fiducia che sembra quanto mai fuori luogo in un contesto come quello rappresentato nel film, si va a mescolare con le influenze shakespeariane da sempre presenti nell'opera del regista, qui sintentizzate dai continui dilemmi morali che Luka si trova ad affrontare: quello derivato dal dover tenere in ostaggio la donna di cui si è innamorato, quello della scelta, al ritorno di sua moglie, tra la sua nuova vita e la vecchia, quello del dover rinunciare all'amore per poter riabbracciare suo figlio, quando infine giunge il momento dello "scambio".

La regia di Kusturica, così, "vira" nella seconda parte del film verso un consapevole alleggerimento del tono della narrazione, esplicitando il contrasto tra il sentimento che lega questo insolito "carceriere" con il suo ostaggio, e la tragedia di quello che sta avvenendo fuori; seguendo, in questo, i dettami di una sceneggiatura che si caratterizza per un ottimismo di fondo (anche se, per dirla con le parole del regista, si tratta di un ottimismo triste, in quanto maturato in un contesto in cui si deve fare i conti quotidianamente con la morte), che appare, durante lo svolgimento della storia, sempre più come cifra stilistica del film.
Gli attori si adattano alla perfezione al singolare impasto di dolcezza e realismo grottesco della narrazione, a partire dai due protagonisti Slavko Stimac e Natasa Solak (perfetto nel ruolo del Candido il primo, già con il regista in Underground, convincente e innocente al punto giusto la seconda), per arrivare a una Vesna Trivalic sopra le righe come richiesto dal ruolo della moglie del protagonista, e al giovane Vuk Costic, un Miloc inquieto quanto basta.

Ci troviamo di fronte, insomma, a un Kusturica convincente, che di nuovo mescola i generi e le influenze filtrandoli attraverso la sua personalissima ottica, ottenendo come risultato un'opera dai molteplici colori e sapori, estremamente fruibile nonostante la lunghezza (155 minuti), leggibile a più livelli: sicuramente un'opera da vedere, rivedere e "ragionare", così come tutti i film precedenti del regista.

Movieplayer.it

4.0/5