Recensione Raul - Diritto di uccidere (2005)

La pellicola di Andrea Bolognini affronta in maniera professionale una libera interpretazione del romanzo di Dostoevskij 'Delitto e Castigo'.

Tra Nietzsche e Dostoevskij

Questa pellicola di Andrea Bolognini affronta in maniera professionale una libera interpretazione del romanzo di Fedor Dostoevskij Delitto e Castigo.
Professionale appunto, e non troppo artistica, in modo da determinare un'atmosfera filmica, di sentimenti e stati d'animo che caratterizzano la narrazione del soggetto ispirato, non troppo coinvolgente, e che inducono lo spettatore a rimanere distaccato da ogni tipo di pathos emotivo. Più che un film basato su un capolavoro dell'ottocento, appare un semplice riassunto didattico da antologia di scolastico spessore.

L'intimità del racconto è vissuta con superficialità, e nulla di particolare riesce a colpire o a rimanere impresso. Qualche nota positiva l'abbiamo nella figura dell'usuraia, interpretata da Laura Betti, l'unica che forse riesce a dare una certa caratterizzazione al suo personaggio; apprezzabili i colori della fotografia e scenografia, e discrete risultano le musiche di Andrea Morricone che incorniciano con preziosità un quadro cinematografico di assai meno stima, che non può trovar rifugio o considerazione in nessuna prospettiva d'autore. Giancarlo Giannini nelle vesti del giudice con sufficiente diligenza non fa scendere troppo di livello l'arte recitativa nei dialoghi del gruppo, Alessandro Haber oscilla tra il drammatico ed il comico, mentre il protagonista, Stefano Dionisi, sicuramente migliore in altre situazioni, nonostante una notevole presenza sulla scena, non lascia il segno in alcuna sequenza.
Il suo peregrinare sullo schermo nelle vesti del protagonista Raul, giovane laureato con gravi difficoltà ad accedere ad ogni tipo di carriera di docente universitario perché non iscritto al partito fascista, rimane sempre lontano dal trasmettere forti emozioni, con una interpretazione troppo tiepida nell'affrontare introspezioni e conflitti interiori di "superomismo nietzscheniano", e tutto si perde in una "noiosa analisi antropologica" di così rappresentati rapporti umani.