Un film di sensazioni, di acuta dolcezza, di ottimi interpreti e di spassionata necessità. Ancora di più, un'altra tappa - nevralgica e non banale - del percorso che il cinema americano sta facendo in funzione di un'apertura, il più possibile egualitaria, in cui sono protagonisti gli afroamericani. Ma Till - Il coraggio di una madre, diretto da Chinonye Chukwu, al suo secondo lungometraggio dopo l'ottimo Clemency (anche lì, la morte era protagonista), è anche un atto politico mascherato da istantanea d'epoca. Anzi, di un'epoca segnata dalle etichette colored, dalle ghettizzazioni, dalla brutale violenza. Le cose, oggi, sono cambiate e stanno cambiando, ma vedendo il film della Chukwu il cortocircuito è evidente e, in un'altalena che ondeggia tra un'epoca e l'altra, il filo arriva dritto ad un nodo che riporta ad un'altra storia vera: la morte di Tyre Nichols, afroamericano pestato a morte da cinque agenti, anch'essi neri, a Memphis, Tennessee. Una vicenda (l'ennesima) assurda e ingiusta quella di Tyre, morto mentre invocava sua mamma RowVaughn. La stessa mamma che poi, spezzata dal dolore, invocò un appello: le proteste, scattate dopo la morte di Tyre, sarebbero dovute essere pacifiche. Troppo sangue era già stato versato, mentre l'odio prendeva il sopravvento.
Del resto, Till, è la storia di una madre e la storia di un figlio, la storia di giustizia negata e di soprusi, dei toni ovattati che, pian piano, si trasformano in un incubo nerissimo. Ed è qui, a metà tra cinema classico e cinema estetico, che il film Chinonye Chukwu si dirama in un mix che alterna il dramma procedurale, l'attivismo e la storia (dis)umana degli Stati Uniti. "Voglio che l'America sia testimone", ripete la protagonista, Danielle Deadwyler, che per il ruolo ha collezionato numerose nomination. Perché è proprio la testimonianza la chiave di Till: la testimonianza di un omicidio cruento, la testimonianza di una battaglia nobile, la testimonianza di una giustizia che deraglia e fallisce miseramente. Del resto, è beffardo pensare che proprio l'emendamento dedicato ad Emmett, ossia l'Emmett Till Antilynching Act, sia stato reso legge solo nel marzo del 2022. Prima, il linciaggio non era considerato un crimine d'odio federale.
"He Beeped When He Should Have Bopped"
Ma chi era Emmett? Till, per l'appunto, racconta la sua sconvolgente storia vera: siamo in un torrido agosto del 1955. Mentre Dizzy Gillespie suona alla radio He Beeped When He Should Have Bopped, il quattordicenne Emmett Till (Jalyn Hall) si sta preparando per andare a far visita ai suoi parenti, a Money, nel Mississippi. Emmett vive a Chicago con sua madre Mamie (Danielle Deadwyler), e il razzismo, pur serpeggiante, è decisamente più ovattato rispetto al profondo sud. Un paio di giorno dopo essere arrivato a Money, Till viene prelevato, picchiato e ucciso da un gruppo di persone. "Quella notte non c'erano solo due uomini bianchi", dice lo zio Moses (John Douglas Thompson), tormentato dai sensi di colpa, dopo che suo nipote è stato portato via di notte dalla sua casa.
In questo delicato e impressionante passaggio, il film si concentra sulla battaglia disperata portata avanti da sua mamma Mamie. È intenzionata, infatti, a mostrare a tutti il volto deformato di suo figlio, pretendendo che la bara venga lasciata aperta durante i funerali, permettendo a tutti di scattare foto. Dall'altra parte, la pellicola di Chinonye Chukwu, presentata in anteprima al New York Film Festival, segue il processo contro i suprematisti bianchi colpevoli dell'omicidio, spostando con efficace coinvolgimento l'attenzione del pubblico verso la causa perpetuata da Mamie Till.
La lotta per i diritti civili, ieri come ora
Invertendo in modo efficace l'intento di Mamie, la regista sceglie di suddividere gli elementi drammatici senza mostrare direttamente la violenza. Il riverbero, tuttavia, è assordate ed è accompagnato dalle note impetuose della colonna sonora composta da Abel Korzeniowski: una storia che si concentra dentro e fuori dallo schermo, e uno spazio visibile che illumina le reazioni di Mamie, emblema del movimento per i diritti civili degli afroamericani. Le emozioni, in questo caso, sono propedeutiche al senso narrativo e all'evoluzione istantanea della protagonista, disperata ma risoluta nel voler (di)mostrare all'intera nazione l'orrore della morte legata all'odio razziale. Un dramma privato che si tramuta in dramma collettivo.
Contemporaneamente, la scrittura, si appoggia sopra una messa in scena lineare, coerente e semplice nella sua ricercata idealizzazione (la camera che gira a 360°, gli angoli sfocati), rifacendosi ad un'idea di cinema in grado di trasmettere una chiara classicità, e dunque una narrazione senza tempo. In fondo, Till è un film che si biforca, tenendo le redini di una storia dalla marcata valenza sociale e politica: la lotta di una donna, e perciò la retorica (forse un po' troppo enfatizzata) sul coraggio e sulla perseveranza femminile, e la lotta in nome dei diritti degli afroamericani, davanti il silenzio di un paese spaccato, intollerante e deresponsabilizzato. Così, Till - Il coraggio di una madre, soffermandosi sul sacrificio insensato di un innocente, è un ulteriore tassello della storia del popolo americano divenuto cinema sospinto dalla giustizia (e i riferimenti sono tutti per Mississippi Burning - le radici dell'odio di Alan Parker); una storia lastricata da una scia di sangue che delinea i confini di un perimetro da cui sembra impossibile uscire. E allora, ecco che Emmett e Tyre sono lo stesso segmento di storia. Una storia terribilmente reale. Ieri come ora.
Conclusioni
Concludendo la recensione di Till, rimarchiamo quanto il film, al netto di un tono spesso ultra-caricato, sia essenziale per capire la storia popolare degli Stati Uniti, segnati dalla segregazione razziale e dall'odio violento nei confronti degli afroamericani. Notevole la prova della protagonista, Danielle Deadwyler.
Perché ci piace
- La storia, dal forte valore.
- La regia, che cambia umore poco a poco.
- La protagonista, Danielle Deadwyler.
Cosa non va
- Alcuni passaggi, in cui l'enfasi trabocca.