Recensione Ti amo in tutte le lingue del mondo (2005)

Pieraccioni si evolve (in meglio) per questa nuova strenna natalizia, pur conservando tutti i suoi clichè di sempre

Ti amo. Anzi no, ti tollero

Il pieraccionismo in vista di questo natale si rivede, matura e parzialmente cambia direzione. A fronte del macchiettismo un po' grottesco del Pieraccioni come siamo abituati a vederlo a scadenza più o meno bi-annuale, la cifra del film proposto (propinatoci) dal regista/attore (e non si sa in quale veste (s)preferirlo) vira verso uno stile più composto e misurato. Conseguentemente, il risultato è più gradevole e, finalmente, più divertente.

Sì, vengono riproposte le figure un po' macchiettiste del personaggio "alla" Ceccherini, la classica femme fatale latina, matrice tipica di questo genere di film, una figura tipicamente mutuata dalla televisività di Panariello (anche se con un suo perché, e ci ritorneremo). Tutti aspetti concessi al pubblico, forse anche giustamente, aspetti da botteghino, aspetti "di pancia e non di testa" che fortunatamente questa volta meno delle altre inficiano sul risultato globale del film.
Pieraccioni (e lui stesso non fa fatica ad ammetterlo) è un dilettante della macchina da presa. Svolge il suo compito con diligenza, mettendo l'occhio meccanico a disposizione dei suoi attori (sua caratteristica è la gran quantità delle cosiddette "inquadrature a teatrino", inquadrature fisse descrittive di campi medi e di dialoghi da campo/controcampo), e tenendosi di conseguenza lontano da scelte stilistiche azzardate o voli pindarici di sorta. Si evita (ma soprattutto ci evita) strafalcioni da ABC del giovane regista, evita di far involvere le sue storie e i suoi personaggi, a tutto vantaggio suo e nostro.

Ti amo in tutte le lingue del mondo si scopre novità anche per l'introduzione di una seconda figura femminile, l'italianissima e giovanissima Giulia Elettra Gorietti, che va a comporre con la più matura Marjo Berasategui un improbabile (e non privo di colpi di scena) triangolo amoroso. Tralasciando un Ceccherini nella (sua) norma (e di questa norma noi faremmo volentieri a meno) vale la pena, in un film portato avanti quasi esclusivamente dallo script, e quindi, più o meno indirettamente, dagli attori, di soffermarsi sull'interpretazione di Panariello. Al solito importa sul grande schermo un personaggio che sembra tratto integralmente dalle sue macchiette del sabato sera, Cateno, il fratello "un po' grullo" del protagonista, al quale però riesce a dare un volto, sia pur nella ricerca della risata, umano e non esageratamente costruito ad hoc. Rischia di cadere a più riprese nel buonismo sentimentalista, ma è un rischio ontologico alle produzioni di tal genere.
Una maturazione di scrittura (con l'aiuto paziente e generoso di Veronesi) e di linearità, anche nel muoversi verso la risata, che scade però in una voglia di strafare che non dà aria al film, inserendone momenti esageratamente simbolici e raccontati (le conversazioni di Cateno con i personaggi, stereotipati fin nel midollo, della lavanderia), che fungono maldestramente da manieriste scene di raccordo tra le sequenze più vive e vissute.

Un Pieraccioni che dunque non esalta (al solito si potrebbe dire) ma che pure, con tutte le sue pecche e i suoi piccoli clichè, cerca, probabilmente troppo volontariamente, una crescita artistica che lo sganci dai suoi piccoli e provinciali film di genere. E che, anche se solo in parte, ci riesce.