È un uomo di cinema a tutto tondo: direttore dell'Institut Lumière a Lione, dove cura anche il Festival Lumière che festeggia il cinema del passato (la decima edizione si è conclusa il 21 ottobre); direttore artistico del Festival di Cannes dal 2001; autore di un libro, Sélection officielle, che ora arriva in Italia; e anche regista del film Lumière! La scoperta del cinema, che riunisce e commenta decine di corti dei due inventori del cinematografo. Parliamo, ovviamente, di Thierry Frémaux, la cui gestione del festival cinematografico più importante al mondo ci ha regalato Palme d'Oro del calibro de La stanza del figlio, Il pianista e The Tree of Life. L'anno scorso le sue scelte sono state oggetto di polemiche per la selezione, in concorso, di due film prodotti e/o distribuiti da Netflix, il che ha portato a una modifica del regolamento del Festival (nelle sezioni competitive sono ammessi solo lungometraggi disponibili per la distribuzione in sala sul territorio francese). Di questo, e molto altro, si è parlato durante l'Incontro Ravvicinato di cui Frémaux è stato protagonista, insieme ad Antonio Monda, alla Festa del Cinema di Roma.
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Netflix e altre nuove modalità di fruizione
La prima domanda si collega indirettamente a ciò che è accaduto a Cannes lo scorso anno: come sta cambiando la forma festival da quando sono nate piattaforme come Netflix, Amazon e Hulu? "Non cambiano i festival, cambia il cinema, che deve reinventarsi", afferma Frémaux. "Siamo in un periodo di crisi, di rottura, ma anche di celebrazione. Si sta rimettendo in discussione il ruolo della sala, il rito della visione collettiva, il che porta alla celebrazione dello stesso. Bisogna guardare al futuro, ma anche proteggere ciò che è venuto prima." L'essenza del cinema sta cambiando radicalmente? "Io vengo da Lione, dalla Rue du Premier Film, la via del primo film dei fratelli Lumière. Gli americani protestano, perché secondo loro il cinema l'ha inventato Edison. Era un genio, ma lui inventò una macchina individuale, il cinetoscopio. Lumière l'ha visto, e ha pensato che si dovesse farne qualcosa di collettivo. Alla fine hanno vinto i Lumière, per 120 anni. Può darsi che oggi, con l'avvento di Netflix e il consumo individuale, Edison si sia preso la rivincita. Ma non è una rivalità, è una coesistenza: si può scegliere di andare al cinema, ma anche di vedere i film a casa. Ai tempi si faceva con le VHS e i DVD, adesso con Netflix. Oggi esistono sia i Lumière che Edison. Sono comunque due cose diverse, ed è questo ad essere interessante: al cinema è importante stare in sala, al buio; con Netflix si può mettere pausa, andare a prendere una birra dal frigo, dormire e riprendere il giorno dopo. La domanda oggi è: le opere fatte per un servizio come Netflix possono essere considerate cinema? Non ho il coraggio di rispondere, ma è l'interrogativo dei cinefili oggi."
La posizione di Cannes è stata molto netta nei confronti di Netflix. Può essere mantenuta nel futuro? "La posizione netta non è la mia", ribatte Frémaux. "Nel 2017 abbiamo invitato due film di Netflix, Okja e The Meyerowitz Stories. Quest'anno il consiglio d'amministrazione, di cui fanno parte anche gli esercenti, mi ha chiesto di non selezionare in concorso film che non usciranno in sala. Nel 2017, Episodio I, Netflix c'era. Nel 2018, Episodio II, non c'era. L'anno prossimo ci sarà l'Episodio III, vedremo. Non so ancora cosa succederà. I dirigenti di Netflix sono miei amici, ci parliamo tutto il tempo, e tornerebbero volentieri a Cannes. Quest'anno no, perché non volevano andare fuori concorso. Per me i festival sono dei laboratori, e la Francia non reagisce rapidamente alle novità, quindi vedremo cosa accadrà nel 2019." Roma di Alfonso Cuarón, che ha vinto il Leone d'Oro a Venezia, doveva andare a Cannes? "Sì, Alfonso mi ha detto, la settimana scorsa a Lione, che il suo film è nato da una conversazione serale tra noi due, completamente ubriachi, al Festival di Morelia. Gli avevo detto di tornare a casa, di fare un film più intimo, personale, messicano. Lui mi ha dato retta, e ha scritto e girato Roma. Me l'ha fatto vedere lo scorso novembre, l'ho amato moltissimo. Non era ancora finito, come capita spesso quando vedo i film per la selezione, ma l'ho invitato subito in concorso a Cannes. Eravamo a Parigi, in un ristorante italiano. Successivamente Alfonso mi ha detto che il film era stato acquistato da Netflix, e mi sono reso conto che avremmo avuto un problema. La legge francese legata alle finestre di distribuzione ci ha impedito di selezionarlo in concorso a Cannes, e il mio amico Alberto Barbera l'ha portato a Venezia. Io l'ho visto al Lido, e c'era anche Cate Blanchett, che era Presidente di Giuria a Cannes. Mi ha detto che a Venezia ha visto il ventiduesimo film del concorso di Cannes [ride, n.d.r.]."
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Bilancio della carriera
Frémaux dirige il Festival di Cannes da quasi vent'anni. C'è un film che si è pentito di non aver selezionato? "Sì, moltissimi, ma non dirò i titoli, perché per principio non parliamo dei film che non abbiamo selezionato", dice rifacendosi alla filosofia che evoca sempre quando presenta il programma della kermesse francese. "Quest'anno la selezione era composta principalmente da cineasti nuovi, mentre di solito mi criticano perché in concorso ci sono sempre gli stessi registi. Quest'anno invece mi hanno attaccato perché non c'erano i soliti nomi. La stampa adora parlare dei film che non ha visto. Le nostre scelte sono personali, sincere, ma non corrispondono alla verità assoluta. Quando ho iniziato non decidevo da solo, quindi c'erano delle rinunce per cui non mi potevo imporre. Adesso la scelta finale, nonostante sia un lavoro di squadra, è mia, e devo assumerne le responsabilità." C'è un regista che inizialmente non apprezzava e poi ha rivalutato? "No, non mi è mai successo. La mia concezione del mestiere non è dire se il film è bello o brutto, ma se deve essere selezionato o meno a Cannes. Alcuni film sono giusti per Cannes, altri per Venezia. Io non sono un critico, il mio lavoro non è esporre teorie, valuto il singolo film. È difficile dire di no a un film minore di un grande regista, ed è il motivo per cui non parlo delle opere non selezionate. Spesso rifiuto un film a Cannes, poi va a Venezia e vince. A Cannes non avrebbe vinto."
Io voglio proteggere i film, e ce ne sono alcuni che io amo molto ma che metterei in pericolo portandoli a Cannes
Cosa rende un film giusto per Cannes o Venezia? "A Cannes la stampa è più esigente, più violenta. Pretendono due capolavori al giorno. Io voglio proteggere i film, e ce ne sono alcuni che io amo molto ma che metterei in pericolo portandoli a Cannes. Nel mio libro parlo dei quattro pilastri di Cannes: gli autori, le star, la stampa e i professionisti. E anche la stampa, nonostante tutto, vuole il red carpet e il glamour, e questi di solito non sono legati al cinema d'autore." Quanto è importante oggi la pressione sempre più invadente del mondo della moda? Quanto influenza, anche indirettamente, un festival? "L'immagine di un festival è creata dalla stampa, non dagli artisti. Se la stampa sceglie di parlare del red carpet è normale, fa parte della mitologia dei festival e di Cannes. Però non bisogna mescolare tutto insieme. A Cannes c'è il glamour, ma ci sono anche i film. C'è lo stesso numero di fotografi per la proiezione delle 19, che può essere un blockbuster hollywoodiano, e per quella delle 22, che può essere un film di Hirokazu Koreeda, che quest'anno ha vinto la Palma d'Oro. I due elementi non vanno mischiati. È come la questione molto delicata delle donne al cinema. A volte i giornalisti mi dicono che dovrei lasciare il mio posto a una donna, ma a chiedermelo sono sempre gli uomini. E quelli che mi parlano dei film fatti dalle donne non conoscono la storia del cinema per quanto riguarda le registe. Non conoscono Alice Guy, Ida Lupino, Muriel Box e tante altre."
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Il rapporto con i giornalisti
Una decisione che ha fatto discutere a Cannes quest'anno riguardava gli orari delle proiezioni stampa: anziché vederli prima, i giornalisti vedevano i film o in contemporanea con la proiezione ufficiale, o il giorno dopo. Com'è nata questa decisione? "Cannes è un festival per i professionisti, e la stampa è fondamentale", risponde Frémaux. "Ci sono due reazioni: quelle della stampa, e quelle degli ospiti alle proiezioni di gala. Nessuna delle due deve dominare l'altra. Era necessario riequilibrare la situazione, per evitare che le diverse reazioni si influenzassero a vicenda. Per esempio, c'è stato un film francese in concorso accolto bene dal pubblico, mentre la stampa è stata più fredda (Girls of the Sun di Eva Husson, n.d.r.). Abbiamo avuto due reazioni oneste in contemporanea, e gli acquirenti hanno comprato il film perché hanno capito che il pubblico l'ha veramente apprezzato." Quanti film francesi c'erano a Cannes quest'anno? "Quattro in concorso. Abbiamo lo stesso problema che ha Venezia con i film italiani. L'industria francese vorrebbe più film nazionali a Cannes, ma noi preferiamo puntare sulla qualità e non sulla quantità. Da noi vengono i film, non determinati autori o paesi."
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Domande del pubblico
Si torna alla questione di Netflix a Cannes: è vero che Frémaux ha rischiato di perdere il suo incarico per la scelta fatta nel 2017, e che non è d'accordo con il nuovo regolamento di Cannes? "È un periodo complicato, e anche la risoluzione del problema sarà complicata. Io non sono né a favore né contro Netflix, a me interessano i film. Martin Scorsese sta facendo un film per Netflix, ma sarà comunque un film di Scorsese. Il processo sarà lungo e complicato. Alberto ha fatto vedere dei film di Netflix a Venezia, e gli esercenti hanno protestato, solo che lì l'hanno fatto dopo, nel mio caso prima. È normale che protestino, che si preoccupino. Per l'edizione 2017, con il presidente del Festival Pierre Lescure, volevamo affrontare il discorso delle piattaforme apertamente. Trovo appassionante il dibattito con entrambe le fazioni, ma gli esercenti in seno al consiglio d'amministrazione erano furibondi." E a tal proposito c'è anche un aneddoto personale: "Oggi cambia tutto: ho un figlio di 15 anni, e l'altro giorno stava guardando un film sull'iPad. Gli ho detto che abbiamo quel film in DVD e Blu-ray. Lui, sdraiato sul letto, mi ha detto che non voleva alzarsi per cercare il Blu-ray e accendere il televisore, ha preferito scaricarlo legalmente, pagando tre euro. Un tempo Bertrand Tavernier e i suoi amici cinefili, per vedere i film rari, dovevano andare in macchina a Bruxelles e vedere le copie in 35mm alla Cineteca Reale. Oggi mio figlio può vederli in camera sua."
Cosa fa per sostenere i giovani produttori/registi e le donne? "A Cannes abbiamo il premio Caméra d'Or, per le opere prime. Al Marché c'è il Short Film Corner, per i corti dei nuovi registi. In genere, come selezionatori, siamo molto attenti ai giovani. E quest'anno, con l'iniziativa Three Days in Cannes, abbiamo permesso ai cinefili dai 18 ai 28 anni di venire al Festival come spettatori, perché è importante formare il nuovo pubblico. Sono venuti 4000 giovani. Quando ero giovane io e vivevo a Lione, andavo a Cannes solo per essere lì, sulla Croisette." Il gigantismo non rischia di essere il problema principale dei festival? "Sì. A Cannes il numero di film in selezione ufficiale rimane costante, 50-60, mentre a Toronto ce ne sono centinaia, e lo stesso a Berlino. In Francia l'interrogativo attuale riguarda il numero eccessivo di film prodotti in un anno. All'epoca di Gilles Jacob a Cannes c'erano più film in concorso, adesso sono di meno. Quest'anno, a sfavore nostro e a favore di Venezia, c'è stata la questione dei film americani: da noi non ce n'erano abbastanza. Cos'è questa fissa per il cinema americano?", dice Frémaux, scatenando un applauso di massa. "Da noi c'erano film giapponesi, coreani, libanesi, che a Venezia non c'erano. Avevamo anche dei film americani, come quelli di Spike Lee e David Robert Mitchell, ma i festival devono mostrare il cinema mondiale. Venezia fa bene a proiettare i film di Netflix se non vanno a Cannes, e fa bene a mostrare i film americani perché la stampa è ossessionata dagli Oscar. Una notte a marzo domina le conversazioni a partire da luglio. Io me ne frego degli Oscar." [il pubblico applaude nuovamente, n.d.r.] "Vado alla cerimonia ogni anno, ma non influenzano le mie scelte in quanto selezionatore. Se volessi i film che andranno agli Oscar, chiederei di spostare Cannes a settembre. Il nostro programma è una fotografia della produzione mondiale nel mese di maggio. Perché la stampa mondiale vuole sempre sincronizzarsi con gli orologi americani?"
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Ha ereditato dei problemi della gestione precedente, per quanto riguarda la struttura del Palais? "È una domanda interessante. Settant'anni fa, il modello era una cittadina con sull'acqua: Cannes, Venezia, Locarno. Adesso il modello è quello delle grandi città: Berlino, Toronto, Roma, anche Lione, dove abbiamo chiuso il festival con 180.000 spettatori in una settimana. Cannes è una città magnifica, ci si va perché è l'inizio dell'estate, perché siamo in Costa Azzurra. Però siamo nel 2018, e stiamo riflettendo sul futuro con Pierre Lescure e il sindaco di Cannes." Qual è il rapporto tra i festival? Rivalità o collaborazione? "Il cinema è abbastanza importante e fragile da non scatenare guerre. I direttori dei festival sono amici. Io sono amico di Barbera, di Dieter Kosslick [direttore uscente della Berlinale, n.d.r.], di Carlo Chatrian [ex-direttore di Locarno e prossimo direttore di Berlino, n.d.r.]. Ci conosciamo tutti, e siamo in contatto durante l'anno. A volte ci facciamo concorrenza, ma quando Venezia fa una bella edizione sono felice, e quando Alberto viene a Cannes mi manda sempre un messaggio alla fine per dirmi quali film ha apprezzato."
L'ultima domanda torna sulla polemica legata a Netflix, con la precisazione che anche in Italia, prima che iniziasse la Mostra di Venezia, gli esercenti hanno criticato la selezione di determinati film in concorso. Perché farli vedere in sala solo a poche migliaia di persone? "Io credo nella sala, a Lione ne ho comprate tre per impedire che chiudessero. Ma la fruizione dei film oggi è diversa, e bisogna trovare un modo per far coesistere le diverse modalità. E poi c'è il problema della logica produttiva. Perché Scorsese e Cuarón hanno scelto Netflix? Perché le major non producono più quel tipo di film. Nessuno distribuisce in sala un lungometraggio in bianco e nero in spagnolo. I dirigenti di Netflix sono cinefili, e hanno i soldi. Per alcuni piccoli film forse la soluzione migliore è quella delle piattaforme, perché la gente non va più a vederli in sala. Il discorso che si fa sulle piattaforme è simile a quello fatto sulla televisione negli anni Cinquanta. Bisogna capire quelli che non possono più andare al cinema, anche per motivi geografici. Il desiderio del cinema c'è ancora, e internet è un modo per soddisfarlo. François Truffaut diceva che quando era critico andava a vedere i film insieme al pubblico, come faceva anche il suo mentore André Bazin. Solo in un secondo tempo sono nate le proiezioni stampa, e i giornalisti, almeno in Francia, col passare del tempo, hanno cominciato a chiedere prima i DVD e poi i link. Anche i giornalisti dovrebbero tornare in sala e ritrovare il desiderio del cinema. Da quel punto di vista i festival sono molto utili."