Mi piacerebbe che non fossimo solo il paese che ha realizzato il rapporto... mi piacerebbe che fossimo il paese che lo ha reso pubblico.
Nel gennaio 2019, subito dopo la presentazione del film al Sundance di fronte a una platea entusiasta, la rivista Variety chiudeva con la seguente frase la sua recensione di The Report: "arrivato alla fine, il film sembrerà qualcosa di cui questo paese ha bisogno ora più che mai: una resa dei conti". Il primo lungometraggio cinematografico di Scott Z. Burns, in effetti, debutta nelle sale nel pieno di una delle fasi più oscure e controverse della politica statunitense; pertanto la sua rievocazione di un capitolo di storia dell'America post-11 settembre assume un peso e un valore ancora maggiori, se letta nel contesto dell'attuale dibattito sulla morale di una nazione e degli uomini che la governano.
Scott Z. Burns, che nel 2006 aveva già diretto il TV movie Plutonio 239, non è nuovo a soggetti legati a storie vere: nella sua carriera di sceneggiatore ha firmato infatti per Steven Soderbergh (co-produttore di The Report) le black comedy The Informant! e, proprio quest'anno, Panama Papers. Da un lato dunque un cinema di denuncia basato su fatti reali, ma dall'altro una propensione per il thriller e la suspense: fra i copioni realizzati da Burns troviamo pure The Bourne Ultimatum e, ancora per Soderbergh, Contagion ed Effetti collaterali. Due dimensioni che in The Report si intrecciano mirabilmente, sul modello di classici della New Hollywood ad opera di registi quali Sidney Lumet e Alan J. Pakula.
Daniel Jones e i lati oscuri della CIA
E di fronte a The Report non può non tornare alla memoria un film come Tutti gli uomini del Presidente: un immancabile punto di riferimento per Scott Z. Burns, che a sua volta realizza la cronaca di un'altra inchiesta, scrupolosa e metodica, determinata a gettare nuova luce sui lati oscuri del potere. Il potere, in questo caso, è incarnato dalla CIA, che subito dopo l'11 settembre 2001, con la segreta complicità di un ramo della Casa Bianca (il Vice-Presidente Dick Cheney), approvò e mise in atto un programma definito enhanced interrogation techniques (tecniche potenziate di interrogatorio): in sostanza l'utilizzo di metodi di tortura, dalla privazione del sonno al famigerato waterboarding, sui prigionieri sospettati di poter fornire informazioni su al-Qaeda e le sue attività terroristiche. Violando le Convenzioni di Ginevra sul rispetto dei diritti umani e ottenendo risultati pressoché insignificanti.
Tali interrogatori vengono descritti nel film attraverso una serie di agghiaccianti flashback, ambientati in cupi sotterranei in cui rimbomba a volume assordante la musica di band quali Marilyn Manson e Slayer. Si tratta di sequenze incasellate all'interno dell'indagine di Daniel Jones, interpretato da Adam Driver: il giovane assistente di una delle veterane della politica USA, la senatrice democratica Dianne Feinstein, ruolo affidato ad Annette Bening. Posto alla guida di uno staff investigativo per conto dell'apposita Commissione del Senato, Daniel si immergerà in una ricerca della durata di sette anni, condotta in un ufficio spoglio e claustrofobico privo di qualunque fonte di luce naturale. Ed è mediante il suo sguardo via via più coinvolto, spinto quasi ai limiti dell'ossessione, che la pellicola assolve la propria funzione 'didattica', intesa nel senso più positivo del termine.
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Crimini di Stato: tra il film-inchiesta e il thriller
Perché The Report, e questa è una delle sue maggiori virtù, riesce ad elaborare una potente riflessione sul senso dell'etica e della responsabilità per mezzo di una narrazione asciutta e rigorosa, ma tuttavia percorsa da una tensione costante: un aspetto in cui Scott Z. Burns dimostra di aver assimilato appieno la lezione del grande cinema americano degli anni Settanta sulla suspense e la paranoia. Il montaggio, curato da George O'Bryant, infrange la linearità cronologica, muovendosi lungo una linea temporale compresa fra il 2002 e il 2014 e conferendo al film un pathos crescente dal momento in cui Daniel Jones e Dianne Feinstein dovranno affrontare una sfida ulteriore: far sì che il rapporto sulla tortura (un totale di seimila e settecento pagine, poi sintetizzate in un compendio di poco più di cinquecento) sia approvato e pubblicato, nonostante l'opposizione della CIA e di una parte dell'establishment di Washington D.C.
"La storia la scrivono i vincitori", recita un ben noto motto, a cui Daniel replica dichiarando: "Questa frase non l'ha pronunciata Churchill, ma Joseph Goebbels, e in realtà diceva: 'Noi passeremo alla storia come i più grandi statisti di tutti i tempi, oppure come i più grandi criminali'". Daniel è pienamente cosciente della portata storica del proprio lavoro: un lavoro che ha scelto di anteporre a ogni residuo di vita privata (tenuta sempre fuori campo), rischiando in prima persona e dovendo decidere se attenersi scrupolosamente alle regole o contemplare vie 'alternative'. Non a caso, laddove The Report rasenta i territori del thriller è quando, nel flashforward iniziale, Daniel trasferisce di nascosto un documento riservato fuori dalla sede della CIA, o nei suoi incontri notturni - stile Gola Profonda - con il whistleblower Raymond Nathan (Tim Blake Nelson) e con un giornalista del New York Times (Matthew Rhys).
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Adam Driver e Annette Bening fra idealismo e Realpolitik
Al carattere informativo ma mai didascalico della prima parte del film si passa così, nella seconda, al serrato braccio di ferro fra la Commissione del Senato, lo spregiudicato neo-direttore della CIA John Brennan (Ted Levine) e la Casa Bianca sotto la Presidenza di Barack Obama, il cui capo dello staff, Denis McDonough (Jon Hamm), sarà il possibile ago della bilancia in merito alle modalità di diffusione del rapporto. E qui The Report si trasforma in un'affilata analisi della dicotomia fra lo strenuo idealismo incarnato da Daniel Jones, al quale un eccezionale Adam Driver conferisce un'intensità incandescente, repressa a stento dietro il suo volto inquieto, e le spregiudicatezze della Realpolitik, disposta a sacrificare un'autentica giustizia sull'altare della ragion di Stato.
Un equilibrio delicatissimo, gestito dall'altro personaggio-chiave del film, la senatrice Feinstein: una figura di cui Annette Bening, in una performance sapientemente controllata e sotto le righe, esprime tutta la complessità e la gravitas nelle frequenti interazioni con Daniel, prima di guadagnare il centro della scena in un appassionato monologo in prossimità dell'epilogo (poco prima di quello, ripreso da un filmato d'archivio, del senatore John McCain). Nelle parole di Owen Gleiberman su Variety, "lei inoltre rende la Feinstein un intrigante studio su come il potere funziona al meglio a Washington: un gioco di sopravvivenza in cui la cosa giusta è filtrata attraverso l'arte del possibile".
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Conclusioni
È uno dei temi centrali di questa magnifica opera prima di Scott Z. Burns per il cinema: un’opera che, come abbiamo indicato nella nostra recensione di The Report, utilizza i canoni del classico film d’inchiesta per esplorare le ambiguità e le sfumature morali insite nella pratica politica e, più in generale, nell’amministrazione di una qualunque forma di potere. Un potere in grado, come nel caso del programma di interrogatori della CIA, di indurre chi lo detiene in una ‘ebrezza’ estremamente pericolosa, fino a perdere di vista la distanza che intercorre tra un fine onorevole e mezzi mostruosi.
Perché ci piace
- Un’avvincente storia vera, in cui l’indagine sui metodi di tortura della CIA si trasforma in una riflessione sulla necessità di un baricentro etico.
- Una struttura drammaturgica originale e accattivante, basata sull’intreccio fra diversi piani temporali.
- La tensione emotiva sprigionata dai confronti fra i personaggi, in particolare nella seconda parte del film.
- Le ottime interpretazioni di un protagonista eccellente quale Adam Driver, di Annette Bening e del ricco cast di supporto.
Cosa non va
- Un rigore narrativo che potrebbe risultare di non facile fruizione per qualche spettatore.