Scrivere la recensione del finale di The Good Place 4, ora disponibile in Italia su Netflix, più o meno un anno dopo il debutto statunitense, significa per certi versi elaborare il lutto di una serie che faceva esattamente la stessa cosa, avendo reinventato in ottica comedy il concetto della vita dopo la morte (suddividendo i regni ultraterreni, nel modo più neutro possibile in modo da non offendere alcun credo religioso, in "posto buono" e "posto cattivo"). Una comedy deliziosamente surreale, a base di una struttura giocosa e a tratti volutamente ripetitiva, con l'aggiunta di deliziosi colpi di scena che sapevano sfruttare alla perfezione le caratteristiche dei vari membri del cast, in particolare Ted Danson, carismatico e cattivo allo stesso tempo. E così facendo, almeno per quanto riguarda il palinsesto televisivo americano avevamo davvero a che fare con un posto buono, che ricordava l'epoca della cosiddetta Must-See TV (non a caso anche questo serial è andato in onda su NBC, luogo natio di tante serie comiche imprescindibili degli ultimi due-tre decenni).
Essere pronti a tutto
La componente luttuosa è presente già nel titolo inglese del finale di The Good Place, ossia Whenever You're Ready, preceduto dalla fatidica dicitura The Final Chapter. È una conclusione definitiva, voluta dal creatore Michael Schur (sceneggiatore e regista dell'episodio) e non imposta dal network, e ciò si riflette nella premessa del gran finale: proprio come la serie stessa, i protagonisti hanno la possibilità di uscire di scena esattamente come preferiscono, senza imposizioni dall'alto (o dal basso). È passato un po' di tempo dall'episodio precedente, e il sistema messo in piedi da Michael (Ted Danson) e i quattro protagonisti umani funziona, con tutti felici nel posto buono dopo le diverse peripezie delle varie stagioni dello show. Gradualmente si rendono conto che, una volta raggiunti gli obiettivi che si erano prefissati per la loro permanenza nel regno ultraterreno, sono liberi di andare oltre e letteralmente cessare di esistere. Un traguardo a cui aspira anche Michael, ma con la complicazione che lui, in quanto immortale, non può oltrepassare la porta che conduce a questo stadio finale. Ed è qui che, forse, potrà intervenire un'ultima volta Eleanor (Kristen Bell)...
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Come diventare migliori
Caratteristica delle serie di Michael Schur è sempre stata quella di avere protagonisti fondamentalmente buoni che credono davvero in quello che fanno in nome del bene comune, che si tratti di Leslie Knope in Parks and Recreation o Jake Peralta in Brooklyn Nine-Nine (con una certa scorza di immaturità nel secondo caso). Un concetto che in questa sede è diventato il messaggio filosofico principale, ponendo al centro dei personaggi che non sono per forza buoni e devono imparare come arrivarci in modo naturale, dopo vari sotterfugi andati a rotoli. Ed è proprio questo il fascino centrale di un serial comico anomalo, per lo meno nel contesto del periodo in cui è stato ideato: uno show con episodi di mezz'ora, su un network generalista anziché una piattaforma di streaming, con una trama orizzontale, e non limitata alla singola stagione ma spalmata lungo l'intera serie, una sorta di viaggio dantesco moderno (anche se in realtà rimaniamo più o meno fissi nello stesso luogo), tra pene eterne e la speranza di accedere a piani più elevati e positivi.
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Per quattro anni la serie è stata un inno alla gentilezza, le cui trovate narrative e stilistiche iniziali (le parolacce automaticamente trasformate in eufemismi - ovviamente fonte di numerosi meme - e il colpo di scena al termine della prima stagione che stravolgeva tutto) hanno presto ceduto il passo a una storia molto umana, dominata dall'inatteso e toccante parallelismo tra Eleanor e Michael, entrambi poco di buono che gradualmente si rendono conto di poter e voler essere migliori. Un percorso che è arrivato al capolinea nel migliore dei modi, chiudendo il tutto in modo logico e coerente, con piccoli tocchi di poesia metatelevisiva (vedi le apparizioni di Nick Offerman e Mary Steenburgen, la moglie di Danson nella vita), inclusa la scena finale che è direttamente basata su una vera esperienza di Schur e riassume in poche battute il senso della serie: a volte la ricompensa per aver compiuto una buona azione è il semplice fatto di aver dato un attimo di felicità a qualcuno, come fa Michael con la meravigliosa battuta di commiato "Take it sleazy". È ciò che ha fatto lo show dall'inizio alla fine, e grazie a Netflix sarà possibile tornare in quel luogo ripetutamente, per rivivere un'avventura esilarante e spiazzante nella sua potente e ingannevole semplicità concettuale e tematica. Per poi arrivare nuovamente a quel finale, e ricominciare ancora, come se guidati dallo schiocco delle dita di Michael. Perché mentre i protagonisti hanno dovuto lottare per arrivare nel posto buono, noi eravamo lì sin dal principio. E lasciarlo definitivamente non sarà facile.
Conclusioni
Chiudiamo la recensione del finale di The Good Place, serie comica che per quattro anni ci ha risollevato il morale con la sua eccellente meditazione sul concetto di gentilezza in un contesto ultraterreno.
Perché ci piace
- Il cast è perfettamente affiatato e inossidabile.
- La conclusione è in linea con l'anima filosofica della serie.
- La scena finale è magnifica nella sua sincera semplicità.
Cosa non va
- Sarà difficile dire addio per sempre allo show.