Giuseppe Pollicelli e Mario Tani hanno provato a colmare un vuoto; mai prima d'ora infatti era stato realizzato un film che raccontasse in maniera strutturata la vita artistica di uno dei grandi cantautori italiani, Franco Battiato; proprio a lui è dedicato Temporary Road - (Una) vita di Franco Battiato, documentario presentato al Torino Film Festival nella sezione Festa Mobile e in uscita in sala il prossimo 11 dicembre, in data unica. Un lavoro, quello svolto dal duo di registi (giornalista specializzato in comics Pollicelli e documentarista e produttore Tani), che prende spunto da una lunga conversazione fatta con il musicista durante la registrazione dell'album Apriti sesamo.
Giuseppe, a cosa fa riferimento l'articolo determinativo messo tra parentesi nel titolo?
Giuseppe Pollicelli: Allude all'idea di transizione e passaggio, un concetto cardine nella poetica di Franco; parla anche di reincarnazione e ci sembrava giusto sottolinearla in qulla maniera.
Franco Battiato: Le temporary road sono le strade temporanee che in Inghilterra vengono create per aggiustarne altre. Che poi è la stessa cosa.
Dall'idea iniziale al prodotto finito quanto tempo è passato? Mario Tani: Le riprese sono partite a luglio 2012 e dovevamo rispettare un calendario preciso, per riuscire a documentare cose mai viste, a inserire cose che potessero dare al nostro lavoro quel quid in più.
E' stato un lavoro complesso dal punto di vista tecnico?Sì, è stato lungo, complesso e difficile. Sono contento soprattutto di aver potuto lavorare con una troupe completa e di aver filmato in 4K, volevo che il risultato finale fosse eccellente dal punto di vista tecnico ed estetico e non buttato via. Naturalmente ha aumentato la difficoltà della lavorazione.
Si è pentito di aver accettato? Franco Battiato: Non mi pento mai delle cose che faccio, altrimenti vorrebbe dire che mi sto dissociando; no, avrei detto da subito non contate su di me.
Ha detto la sua come regista?
No, non discuto mai le regole di altri, ma ci siamo scambiati delle necessità
Nel documentario si vede una sequenza del suo Musikanten, con Alejandro Jodorowsky che interpreta Beethoven. Cosa può dirci di lui?
E' uno forte davvero, l'ho chiamato in giugno per un'intervista sulla morte che farà parte di un documentario che mi hanno commissionato; prima abbiamo iniziato a parlare francese, lingua che detesta e che parla malissimo, poi in spagnolo, e mi ha detto a muso duro, "Battiato, io non sono morto, sono vivo, intervistami quando sarò morto e forse ti saprò dire cosa c'è dall'altra parte". Sul set di Musikanten io facevo da interprete a quelli che andavano a farsi fare i tarocchi; un giorno è riuscito a prevedere anche la gravidanza della compagna di Fabrizio Gifuni, Sonia Bergamasco, che proprio quella mattina aveva scoperto di essere incinta.
Che rapporto ha con le critiche negative?
In certi casi i critici sono dei registi mancati che vorrebbero fare un film, ma non sanno da dove partire.
E che giudizio dà di Paolo Virzì, il direttore artistico del Torino Film Festival?
Virzì è un gioiello d'uomo, è arguto, acuto e spiritoso, quindi sono felice di essere qui.
Sono nato dopo la guerra, non c'erano soldi, c'era pochissimo da mangiare, eppure eravamo felici; non si rubava, perché non c'era niente da rubare, non si uccideva, perché già tanti milioni di persone erano state uccise. Ho vissuto un'infanzia tribale, divertente e interessante che ha lasciato in me segni indelebili. Dovremmo pensare meno ai soldi e lo dico anche a chi, purtroppo, non ne possiede, con la speranze che i soldi delle tasse versati siano davvero destinati ai meno abbienti. Da giovane, quando mi ero trasferito a Milano, sono stato una settimana senza mangiare, la mia natura mi impediva di rubare, mi bastava vedere le vetrine sotto Natale per stare bene. Dipende dalla natura che hai. Una mia amica si era trasferita a Londra, portando con sé i risparmi di una vita, per chiudersi in un convento; dopo quindici giorni le suore stesse le hanno rubato i soldi e l'hanno cacciata. E' rimasta su una panchina a meditare. Una cosa del genere, però, non la possiamo chiedere a tutti. In ogni caso, la domanda è troppo complessa, questo universo è complesso, mi dispiace per gli atei che non hanno capito niente.
E' molto divertente la parte del documentario in cui si racconta il suo rapporto d'amore-odio con la pittura...
Da bambino non sapevo disegnare e non sono mai riuscito ad accettare questo mio handicap paradossale; a scuola prendevo sempre uno, una sola volta sono arrivato al 3+, quando chiesi ad un mio compagno di classe bravissimo di fare un disegno per me, io lo avrei ripagato dicendogli gli accordi di una canzone di Neil Sedaka che andava per la maggiore. Era talmente bello che non potevo presentarlo come mio, lo insozzai talmente tanto da prendere quel voto, che in realtà era il più alto di sempre. Un giorno ho provato a tratteggiare un fondale per un'opera che andava in scena al Regio di Parma; lo scenografo mi aveva chiesto di disegnare seguendo il mio istinto. Dopo qualche minuto mi ferma la mano e dice "Ti giuro che mio figlio di 3 anni è meglio di te", fu un'offesa terribile.
E poi, cos'è cambiato?
Ho passato tre anni di ozio greco e mi sono messo sotto; la sera dipingevo e come Penelope la mattina dopo o la cancellavo o la buttavo. Un giorno, con quattro linee ho disegnato un derviscio ed è stato un orgasmo. L'altra volta ho fatto uno struzzo strabiliante.