"Il sogno ci libera dalle nostra angosce, ci permette di mettere ordine nella nostra vita diurna. Abbiamo pianto nel sonno, abbiamo riso nel sogno, abbiamo avuto un orgasmo nel sogno. Credo che un giorno sarà possibile rivolgersi direttamente al proprio cervello, programmare una storia, confezionata all' esterno da altri. Una storia che potrà fare di noi addirittura un personaggio di se stessa..."
Creatore di sogni. Forse il più grande. Se è possibile trovare un filo conduttore nei suoi lavori (non opere, come dice lui stesso, ma lavori) così diversi fra loro (mettete uno accanto all' altro film come Jurassic Park e Salvate il soldato Ryan) è proprio il sogno. O meglio, la sensazione, quando ci si siede nella sala buia, di non essere del tutto svegli. E questo accade non solo quando Steven Spielberg, il geniale affabulatore, ci racconta delle fiabe, nere o formato famiglia che siano, sempre di favole si tratta, ma anche quando abbandona momentaneamente il campo della fantasia per rivolgersi a quello, più prosaico, della realtà.
Se il sogno è infatti qualcosa che ci permette di mettere ordine nella nostra vita diurna, è possibile approfittare dello stato di semi-incoscienza che ci provoca un film per fare in modo che un briciolo di sogno entri nella realtà e, perché no, anche nella Storia.
E allora, persino nella mostruosa tragedia della seconda guerra mondiale, ecco che si scoprono momenti in cui l'uomo smette di essere bestia e con i suoi piccoli gesti riscatta l' intera razza. E se si tratta di fatti realmente accaduti, tanto meglio: è bello poter dimostrare, ogni tanto, senza ricorrere ad alieni o a dinosauri che il bene ha una forza tutta particolare, che può essere sporcato, massacrato, essere sul punto di morire, ma alla fine rimane sempre in piedi, zoppicante quanto si vuole, ma pronto a ricominciare.
Concetti banali per un cinema commerciale e solo di superficie? Forse. Ma, se andiamo un secondo al di là della retorica dei buoni sentimenti e di alcune cadute di tono nel nome dei valori da buon cittadino americano (sempre presenti, non lo nego, nella filmografia di Spielberg), scopriamo che c'è dell' altro, radicato in profondità, ma sommerso, come se il regista non volesse mai essere preso del tutto sul serio.
Ed è la partecipazione, sentita, forte e dolorosa, per la tragedia del genere umano. Un senso di pietas che impone di perdonare e di offrire sempre un'altra possibilità. Spielberg fotografa dei piccoli uomini costretti a diventare giganti, loro malgrado, uomini che non hanno nessuna voglia di essere eroi, e infatti il loro eroismo è sempre accidentale, forzato, a volte anche ridicolo. Personaggi che ricevono una spinta morale dalle circostanze e che, in situazioni normali, sarebbero vili e meschini come tutti gli uomini in tutti i giorni della loro vita. Che cosa accade a questi eroi mediocri? Si ritrovano a combattere contro forze troppo grandi per loro, la natura improvvisamente impazzita o una catastrofe mondiale, oppure gli viene regalata dall' alto una possibilità di redenzione, che può avere il volto di un alieno che comunica con la musica, o di un piccolo androide che prega un pupazzo da luna park. E a quel punto, devono scegliere. Nei film di Spielberg, l' uomo, alla fine, sceglie sempre per il meglio, anche a costo della sua stessa vita. Semplicistico? Può darsi. Ma parliamo sempre di fiabe, parliamo di sogni, e le fiabe e i sogni servono a mettere ordine dove c'è solo il caos.
Se autore è colui che non si limita a mettere le immagini una dietro l'altra per confezionare una storia più o meno vendibile, ma che invece riesce a creare dei lavori che siano "suoi", per tematiche e stile, che è in grado di rendersi visibile anche dietro soggetti non suoi e che sviluppa un discorso coerente nei vari tasselli della sua filmografia, allora Spielberg è un autore a pieno titolo, sin dal suo esordio con Duel (1972), attraverso la parentesi orrorifica de Lo Squalo (1976), passando per il divertimento sfrenato dei tre Indiana Jones(1980, 1984, 1989), per poi approdare ai drammi storici di Schindler's List (1994) e Salvate il soldato Ryan (1998).
E' autore anche quando compie mezzi passi falsi come Hook - Capitan Uncino (1992) o il comunque interessante Amistad (1997), e lo è a maggior ragione nei vari flop commerciali che costellano la sua attività di fenomeno Hollywoodiano (Sugarland Express- 1974, L'impero del sole - 1987, Il colore viola - 1985).
Che sia un autore, e molto probabilmente, un grande autore, lo rivela soprattutto uno dei suoi film meno compresi e più criticati, A.I. intelligenza artificiale (2001).
Troppe volte si è detto che il finale di questo film è un tradimento al grande Stanley Kubrick, che Spielberg non ha fatto altro che rendere stucchevole e sentimentale un' opera che poteva essere un capolavoro, che con il suo ottimismo un po' ottuso, con il suo infantilismo, Spielberg ha preso una parabola disperata e l' ha fatta diventare una fiabetta a lieto fine.
Sì, è vero, in mano a Kubrick, A.I. sarebbe stato diverso. Ma, guardacaso, è a tutti gli effetti un film di Spielberg, un gigantesco contenitore delle sue speranze e delle sue ossessioni. Ben venga, dunque, il tradimento. E' proprio il fatto di aver (magari inconsapevolmente) stravolto la poetica kubrickiana che dimostra, ancora una volta in caso ce ne fosse il bisogno, quanto sia prettamente autoriale il modo in cui Spielberg affronta il suo lavoro, quanto sia, malgrado lo si voglia per forza limitare all' immagine di rampollo acritico della peggior Hollywood, "personale".
Il cinema di Spielberg è quanto di più lontano dal neoclassicismo condito da effetti speciali di dubbio gusto, di un Emmerych o, peggio ancora, di Michael Bay. E' un cinema di magistrale perizia tecnica, a volte di puro intrattenimento, sempre di grande spettacolo, ma è anche un cinema denso di contenuti e di emozioni, un cinema mosso dalla stessa pulsione che muoveva le antiche tragedie, quella di dare un senso profondamente morale anche agli aspetti più spietati e caotici della vita, quella, una volta per tutte, di affermare la potenza del sogno e dell' utopia sullo squallore e la disperazione di una realtà malata.