Il 17 marzo 2004 avvenne la sparizione misteriosa di Cornelia Rau, tedesca residente in Australia, e si scoprì poi che la donna, affetta da disturbi mentali, era stata tenuta prigioniera dalle autorità competenti in materia d'immigrazione, a causa di dubbi sulla sua identità e la difficoltà nel reperire elementi in grado di confermare chi fosse e se avesse il diritto di vivere nel paese. Quindici anni dopo, questo evento ha parzialmente ispirato il nuovo lavoro di Cate Blanchett, che da anni lavora con le Nazioni Unite per le questioni dei rifugiati, ed è nata una miniserie che affronta il tema da più punti di vista, come potrete leggere in questa recensione di Stateless. In questo caso la diva australiana partecipa in tripla veste, come interprete, co-creatrice (al fianco di Tony Ayres ed Elise McCredie, quest'ultima autrice di quattro dei sei episodi della miniserie) e produttrice esecutiva (insieme al marito, il regista Andrew Upton), per un progetto ambizioso che, dopo la prima mondiale nell'apposita sezione della Berlinale dedicata alle produzioni televisive, ha debuttato in patria nel mese di marzo e ora arriva nel resto del mondo grazie a Netflix. Ragion per cui state leggendo di questa miniserie, il cui titolo in questo contesto è letterale ma anche figurato, poiché si riferisce anche alla crisi d'identità di alcuni dei protagonisti.
Quattro destini che si incrociano
"Basato su eventi reali", recitano i titoli di testa di Stateless (i titoli di coda dell'ultimo episodio precisano poi che tra le ispirazioni ci fu appunto la vicenda di Cornelia Rau), la cui collocazione cronologica è volutamente vaga, anche se chi conosce bene la burocrazia australiana può intuire il periodo in base alla terminologia usata, poiché alcuni reparti governativi, tra cui quello dell'immigrazione, hanno avuto appellativi diversi nel corso degli anni. Ed è in un centro di detenzione, quasi in mezzo al nulla, nel deserto, che si incrociano le vicende di quattro personaggi: Sofie Werner (Yvonne Strahovski), una hostess in crisi dopo essere fuggita da una setta (i cui leader hanno le fattezze di Dominic West e Cate Blanchett); Ameer (Fayssal Bazzi), un rifugiato afgano in cerca di asilo politico; Cam Sandford (Jai Courtney), che ha accettato di lavorare nel centro per mantenere la famiglia; e Claire Kowitz (Asher Keddie), mandata a indagare sui metodi lavorativi di quella località sperduta e costretta a fare i conti con non pochi elementi problematici, tra cui la presenza di Sofie, cittadina australiana ma ufficialmente senza identità in quel posto isolato.
Dei diritti e delle persone
Se il contenuto a tratti si fa un po' "pesante" in ottica bingewatching (infatti in Australia i sei capitoli sono andati in onda a cadenza settimanale), è anche un fattore utile nella costruzione della tensione drammatica, palpabile e spietata in quanto vera, per quanto veicolata tramite convenzioni narrative facilmente riconoscibili. Un crescendo di suspense in continua evoluzione (notevoli su quel piano i tre episodi finali, diretti da Jocelyn Moorhouse che nel 2015 ci ha regalato l'ottimo The Dressmaker - Il diavolo è tornato), che affronta un argomento universale ma mette anche in evidenza il caso specifico dell'Australia, con la fotografia rovente che rende giustizia al paesaggio desertico e la qualità quasi ipnotica degli accenti, da ascoltare in lingua originale. Esemplare, in tal senso, il lavoro di Jai Courtney, che qui gioca in casa dopo diverse esperienze hollywoodiane non sempre fortunate, ma a dominare il tutto è Yvonne Strahovski con una performance multipla, vulnerabile e straziante, quasi una rivelazione se la si conosce soprattutto per la sua partecipazione a produzioni americane (vedi alle voci Chuck e Dexter). E se come attrice Cate Blanchett sceglie di stare quasi sullo sfondo, come autrice la sua voce risulta chiara e forte, per restituire un'identità e uno stato a chi per un motivo o l'altro ne viene privato. E quando le inevitabili scritte finali si palesano al termine della miniserie, non è una vera fine, bensì un inizio, l'avvio di una nuova conversazione, come ha spiegato la stessa Blanchett chiarendo la scelta di raccontare questa storia sul piccolo schermo: il dialogo parte tra gli spettatori, che sia al ritmo di un episodio a settimana o di una maratona made in Netflix.
I 20 migliori film sui diritti civili
Conclusioni
Chiudiamo la recensione di Stateless emotivamente spossati ma tutto sommato soddisfatti, perché l'impegno etico e civile dietro la miniserie è accompagnato da un impianto drammaturgico solido e da personaggi coinvolgenti, con nota di merito per Cate Blanchett che mette in evidenza un'assoluta mancanza di vanità, scegliendosi un ruolo minore, quasi invisibile, al servizio di una storia più grande.
Perché ci piace
- Yvonne Strahovski è al massimo della forma.
- L'argomento trattato è forte e coinvolgente.
- La tensione si accumula in modo intelligente e straziante.
Cosa non va
- I contenuti non sono esattamente ideali per il bingewatching tanto caro a Netflix.