È altamente probabile che se il Hwang Dong-hyuk del 2025 potesse andare indietro nel tempo a rassicurare il sé stesso del 2008 fa dicendogli che quello che stava elaborando e avrebbe poi proposto a mezzo mondo ricevendo una lista infinita di "No, grazie" sarebbe poi stato non solo prodotto da Netflix ma si sarebbe trasformato addirittura una delle sue serie di punta, la versione più giovane avrebbe guardato quella più anziana con una dose di forte incredulità e scetticismo. Effettivamente, Squid Game e la sua popolarità, in un settore spesso e volentieri vituperato come quello dello streaming specie se targato Netflix, sono la dimostrazione di quanto ormai, nonostante Hollywood resti sempre e comunque Hollywood, il mondo dell'intrattenimento sia meno ancorato a certi schemi ormai superati.

Solo dieci anni fa, era impensabile anche solo ipotizzare che una serie arrivata dalla Corea del Sud avrebbe furoreggiato in ogni angolo del globo e che, un po' dappertutto, avremmo visto un fiorire di merchandise a base di tute rosa acceso e maschere nere decorate con forme geometriche bianche. Adesso è del tutto normale entrare per un caffé in un bar di Capracotta e imbattersi in avventori che chiacchierano delle scelte fatte da Gi-hun nella serie.
Serie che, qualche giorno fa, è giunta al termine con una terza stagione che è più una parte due della seconda, ma vabbè ci siamo capiti. Una fine che palesemente fine non è. Anche se i piani del colosso di Los Gatos devono ancora essere annunciati in via ufficiale, riteniamo difficile che Squid Game sia una pratica chiusa e archiviata per un'azienda che ha come core business lo streaming e che ha bisogno come noi necessitiamo dell'ossigeno di proprietà intellettuali in grado di definirne l'identità e l'appeal. E così, mentre il destino di Squid Game deve ancora delinearsi all'orizzonte, una cosa è invece lapalissiana: anche se il giocatore 456 (Lee Jung-jae) muore nell'ultima puntata è comunque lui ad avere vinto su tutta la linea rispetto dal Front Man Hwang In-ho (Lee Byung-hun).
Squid Game 3: una vittoria morale nel vero senso della parola
Le grandi storie hanno spesso alla base l'antitesi fra eroe e villain e se questi due sono anche graziati da una scrittura che ne esalta le sfumature morali, anche meglio. Effettivamente, Squid Game è riuscita perché anche chi vive fuori dal contesto sociale sudcoreano e non è avvezzo a quanto le disparità sociali siano così evidenti in una nazione percepita come ultra avanzata (fateci caso: è il trait d'union di tante famose produzioni di Seul e dintorni diventate famose negli ultimi anni), può comunque capire i chiaroscuri di personaggi che vengono dipinti con tante sfumature e presentano una marcata evoluzione nel loro arco narrativo.

Ed è qui che quanto creato da Hwang Dong-hyuk trova il suo principale punto di forza una volta eliminati dall'equazione tutti gli elementi più appariscenti come le truculente morti nei barocchi giochi e la gestione "orientale" del melodramma. Gi-hun e Hwang In-ho sono due personaggi magnetici che sono uno lo specchio dell'altro. Non conosciamo nel dettaglio quello che è accaduto nella vita di In-ho e perché sia finito per diventare il gestore di questa forma d'intrattenimento per miliardari annoiati che si divertono a vedere persone che muoiono o si fanno fuori reciprocamente per soldi. Proprio questa terza stagione ha fornito qualche dettaglio aggiuntivo che ha instillato probabilmente in molta gente il desiderio di vedere uno spin-off tutto dedicato a lui. Desiderata a parte, ci viene fatto capire senza troppi fronzoli che quel tizio con la maschera nera che scoprivamo essere il fratello del detective Hwang Jun-ho (Wi Ha-joon) nella prima stagione ha trovato questa peculiare occupazione dopo aver vissuto una situazione analoga a quella del giocatore 456. A differenziarli è la forma mentis scaturita dall'esperienza traumatica.
Front Man, dopo aver ricevuto il coltello prima del round finale al tempo della sua partecipazione al gioco del calamaro ha ceduto all'idea che gli esseri umani sono cinici, egoisti e opportunisti. E ha fatto fuori tutti i suoi sfidanti mentre dormivano con la pancia piena. Gi-hun no.
Rileggiamo il finale
Non è che, mentre puntava il coltello alla gola del giocatore numero 100, Gi-hun non abbia seriamente pensato di farlo fuori mentre il montaggio ci mostrava quello che, x anni prima, era accaduto a Hwang In-ho prima di diventare Front Man. Però ha resistito senza cedere. Ed è sicuramente qua che qualcosa, nell'imperturbabile villain, ha iniziato forse a incrinarsi dopo aver anche scelto di stare per lungo tempo di fianco al concorrente 456 quando aveva deciso di mescolarsi insieme ai giocatori. Il desiderio di capire perché uno che aveva vinto la bellezza di una trentina di milioni di euro avesse deciso di partecipare nuovamente ai giochi rischiando tutto era troppo forte.
Inizialmente, a motivarlo è un puro e semplice desiderio di vendetta che poi, dopo il fallimento della sommossa e la nascita della piccola giocatrice 222 muta in qualcosa di diverso. Nella volontà di dimostrare che gli esseri umani, perdonate il francesismo, non sono delle merde totali. Che è invece la convinzione assoluta del caro Front Man. Ed è per questo che, nonostante il cranio spappolato come logica conseguenza di un volo nel vuoto di qualche decina di metri, il vero trionfo di Gi-hun è quello nel finale di Squid Game 3.

In quella che fra Lee Jung-jae e Lee Byung-hun pare essere una specie di gara a chi sia più bravo nell'esercitare il mestiere che fanno per campare, l'attore, gli sguardi e le espressioni enigmatiche del secondo fanno sì che finisca comunque per esserci un po' di spazio di manovra per l'interpretazione delle sue vere intenzioni: Gi-hun è davvero riuscito a mettere in crisi il suo sistema di valori? Il pacco regalo che porta a sua figlia è sul serio solo frutto di un gesto di correttezza verso il giocatore 456? Quando vede Cate Blanchett intenta a reclutare disperati nei vicoli di Los Angeles è sorpreso o sapeva già tutto? Chi può dirlo...
La parola al diretto interessato, Lee Byung-hun
In una ricca chiacchierata fatta con l'Hollywood Reporter dopo l'uscita di Squid Game 3, è stato proprio Lee Byung-hun a parlare del vero perdente, il suo Front Man. Spiega che questo ex-detective era un uomo normale con una vita normale che si è ritrovato a vivere pessime esperienze come la perdita della moglie e del figlio e tutto il corredo di disperazione che "lo ha spinto a partecipare allo Squid Game. Una volta dentro, assiste a ulteriore brutalità e crudeltà assoluta, e tutto ciò lo trasforma in una persona estremamente pessimista e cinica, convinta che non ci sia più alcuna speranza per il mondo o per l'umanità. Così, osservando Gi-hun, pensa che lui sia troppo ingenuo e che finirà esattamente come lui, e che solo il tempo potrà dirlo".
Ed è proprio nel prosieguo del botta e risposta col popolare magazine d'intrattenimento che la star sudcoreana fornisce una risposta che rafforza la nostra lettura. Commettando il flashback in cui il suo personaggio, armato di coltello, si era trovato nella medesima posizione del giocatore 456 spiega che a suo modo di vedere "il Front Man volesse che Gi-hun vivesse, perché nei suoi confronti provava qualcosa di diverso rispetto agli altri giocatori, anche per il tempo trascorso insieme nel gioco. Se Gi-hun avesse ucciso tutti come aveva fatto lui, avrebbe provato un senso di vittoria, perché la sua visione del mondo sarebbe stata confermata. Avrebbe potuto dire: Hai visto? Sei diventato proprio come me".

Se Gi-hun non l'avesse fatto il Front Man "avrebbe provato una sorta di sconfitta. Avrebbe provato anche autocondanna, o persino invidia, nel vedere Gi-hun rimanere fedele ai suoi valori in un modo in cui lui non era riuscito. Tuttavia, credo che nel profondo, una parte di lui tifasse per Gi-hun. La parte più nascosta desiderava vedere Gi-hun non arrendersi e continuare a credere nel mondo e nell'umanità. Ho recitato quella scena pensando che provasse tutte queste emozioni, ma che, nel fondo, prevalesse proprio quest'ultima".