Soffi di vento
Capita, quando si alza il vento, che una busta di plastica volteggi sul mare, fotocopiando una poesia già recitata da un'altra parte, nel cielo sopra le villette americane che fanno da scrigno agli incubi caramellati. E' la bora di Trieste, quella che ha soffiato sullo stagno del nostro cinema una piuma bionda, posata lì perché qualcuno se ne accorga, ne comprenda il valore e la raccolga, non la lasci inghiottire da quella melma. Qualcuno deve essersi distratto nel bacio che ha dato sulla bocca di uno sconosciuto, perché le ali hanno perso troppo oro, sporcandogli le mani che poi ha portato agli occhi, e così le speranze del cinema italiano passano per il talento di un nome nuovo, Stefano Pasetto, figlio del Centro Sperimentale di Cinematografia che, dopo una serie di corti e di documentari, debutta al lungometraggio con Tartarughe sul dorso, opera prima di rara bellezza.
Quando la macchina da presa si addormenta sulla spalla di una donna, per fotografarne la nuca, il film è già oltre quanto visto negli ultimi tempi. Inscatolata in un gioco di parole, la memoria srotola un gomitolo di immagini che raccontano una storia senza nomi, fatta di respiri e carezze trattenute. Come una tartaruga cammina paziente verso il destino che la sta chiamando, così un uomo (Fabrizio Rongione) e una donna (Barbora Bobulova) si avvicinano a piccoli passi, eppure non si incontrano mai, attenti come sono a non far baccano, per non coprire i battiti che nell'aria riecheggiano il canto delle sirene. La distanza che li separa è misurabile nello spazio di un tram, solo che la testa è nella direzione sbagliata e la bocca di fronte ai miraggi è a corto di fiato. Il vento li porta sul mare e poi li soffia via, lontani l'uno dall'altra, proprio quando stanno per toccarsi. Il dramma più grande per una tartaruga è capovolgersi sul dorso. Quando questo accade resta solo l'attesa come speranza che salvi la vita. E' un lungo inverno il loro, il tempo necessario a cercare il senso delle cose con l'orecchio appoggiato alla schiena e a trovarlo con le dita sulla pelle inesplorata del petto, ma i corpi che finalmente si sfiorano, dopo essersi rincorsi, tremano al contatto e hanno paura. Cosa fa della felicità un lupo nero da temere?
L'anno d'oro della slovacca Barbora Bobulova, assunta ormai a musa del cinema italiano, prosegue con una prova, se possibile, ancor più convincente di quella che le ha fruttato di recente il David di Donatello per la sua interpretazione nell'ultimo lavoro di Ferzan Ozpetek, Cuore sacro, film girato dopo Tartarughe sul dorso, ma che ha trovato una più veloce distribuzione. Ugualmente bravo è Fabrizio Rongione, interprete intenso, ottimamente calato in un ruolo delicato, non facile da affrontare, perché Tartarughe sul dorso non è un film dall'impatto immediato, è evidentemente diretto a palati fini, in quanto film di immagini più che di parole, animato da corpi e disseminato di simboli, che gioca col melò, destrutturandolo, un film di professioni, nel quale la città fa da macro-personaggio, dialogando costantemente con i due protagonisti. Siamo nel territorio di Garrone, ma il respiro è quello più ampio di Kieslowski e del cinema francese. Il montaggio foggia efficacemente la struttura temporale, scombinata come in balia del vento, che con le sue ellissi ritmiche e i suoi molteplici piani narrativi contribuisce al senso ipnotico del film. L'andamento lirico è garantito inoltre dalle musiche della Banda Osiris, dagli archi pizzicati con dolcezza che riempiono con grazia il silenzio che troppo spesso si apre sulla scena. Ottimo anche il lavoro di Paolo Bravi che fotografa una splendida, quanto malinconica, Trieste che, nel suo linguaggio universale di città di confine, diventa vero e proprio organismo vivente e condizionante.
Salutiamo, quindi, l'esordio di Stefano Pasetto con grande entusiasmo, nella speranza che i suoi colleghi prendano esempio dal suo coraggio e si collochino sulla scia che Tartarughe sul dorso si lascia dietro.