Recensione La zona (2007)

Rodrigo Plà, pur dando l'impressione di masticare il miglior cinema del passato, sa tirare dritto per la sua strada, dimostrandosi in grado di guardare all'oggi in modo penetrante.

Severamente vietato l'accesso

Il film del messicano Rodrigo Plà è un autentico pugno allo stomaco, da cui ci si riprende a fatica. La scabrosità del soggetto fa rima con uno sviluppo del racconto tale da far sì che tensione, disagio, rabbia, si facciano strada nell'animo dello spettatore in modo progressivo, coagulandosi nello spaccato sempre più crudo delle paranoie diffuse che accompagnano il processo di globalizzazione, in America Latina come anche altrove.
Parafrasando Buñuel verrebbe da dire: l'assoluta mancanza di fascino della borghesia. Per quanto l'autore, ispirato da un racconto breve della moglie, ricorra a soluzioni di sceneggiatura apparentemente estreme, il clima che si respira nel film non si discosta poi tanto da quello avvelenato di certe megalopoli del Centro e Sud America. In Messico come in Colombia, nelle cosiddette "zone rosa" di Caracas come nelle grandi metropoli brasiliane circondate da favelas, la tendenza della parte agiata della società sembra essere la stessa: recintarsi in zone residenziali edificate appositamente, o magari riadattare allo scopo quelle preesistenti, così da condurre un'esistenza privilegiata il più lontano possibile dalla violenza e dalla disperazione che contaminano il resto della città, in particolare i quartieri poveri. Gli strumenti di cui ci si serve sono barriere percorse dal filo spinato, check point piazzati all'ingresso di strade private, vigilantes armati fino ai denti, videocamere di sorveglianza ovunque.

Ma dove conduce la politica dei muri? Dentro La zona di Rodrigo Plà, è ovvio. La costruzione ansiogena del film si sviluppa a ridosso di un prologo particolarmente violento e traumatico; vi è un tentativo di furto da parte di tre ragazzi penetrati in circostanze rocambolesche all'interno della Zona, con conseguenze drammatiche: morti da una parte e dall'altra, tanto che nel bilancio figurano due rapinatori, fatti secchi immediatamente, mentre il terzo è in fuga. Proprio il più giovane, proprio Miguel che aveva tentato di astenersi da certe brutalità. Semplicemente un ragazzino, non così diverso nel modo di esprimersi da Alejandro, il figlio di un ricco professionista con cui verrà in contatto nell'affannosa ricerca di un nascondiglio. Già, perché nel momento in cui i sistemi di sicurezza che rendono la Zona una specie di fortino inaccessibile rientrano in funzione, quel posto si trasforma per Miguel in una trappola da incubo. Nemmeno la polizia, per quanto il comandante Rigoberto faccia inizialmente qualche sforzo, riesce a dettarvi legge. I ricchi abitanti di quello stato nello stato hanno già deciso: occhio per occhio, dente per dente. La paura che lo sgradevole episodio abbia incrinato il sistema di privilegi e di dorato isolamento in cui sono abituati a vivere li rende simili a belve. Non ingannino i vestiti eleganti e le macchine costose, perché la loro vera natura, l'istinto bestiale riemerso a difesa del territorio, sono predisposizioni genetiche di una borghesia malata e insicura, che qui non tarderanno a manifestarsi in una assurda caccia all'uomo. Fino a riesumare quell'isteria collettiva, intimamente votata al linciaggio, che non appariva sul grande schermo con tale ferocia dai tempi di Fritz Lang e Spencer Tracy: Furia docet, come è giusto che sia per un capolavoro.

Ma il nostro Rodrigo Plà, che pur dando l'impressione di masticare il miglior cinema del passato (è forse esagerato accostare il pessimismo della sua visione a quello di un grande come Peckinpah?) sa tirare dritto per la sua strada, si dimostra in grado di guardare all'oggi in modo penetrante, senza reticenze allorché si renda necessario scoperchiare i meccanismi più pericolosi di una società portata ad implodere, nella sua chiusura mentale eletta a precetto. Lo dimostrano i ritratti acidi degli individui ricchi e insensibili che popolano la Zona, ragazzini compresi, ritratti che però non scivolano mai nella retorica o in un grottesco troppo accentuato, conservando piuttosto un tono realistico. Quel tono che si rispecchia poi in scelte fotografiche livide e nel montaggio, serrato quanto basta, da cui l'humus ideale per far sedimentare nello sguardo scene assai crude di pestaggi e di giustizia sommaria. Il tutto condito da riflessioni cinematografiche niente affatto peregrine, come l'insistere sull'occhio delle videocamere che tutto vorrebbe controllare, sezionare, nel piccolo territorio gestito dai feroci borghesi, tranne poi arrendersi all'impertinente sabotaggio dei sempre più frequenti blackout e cali di tensione. Altri barbari si annunciano forse ai confini dell'impero?