Recensione The Forbidden Door (2009)

Un'opera che omaggia un modello "alto" come quello del cinema di David Lynch, restando tuttavia molto personale e mantenendo una notevole eleganza formale.

Sculture disturbanti

In questa undicesima edizione del Far East Film Festival, la tradizionale giornata dedicata all'horror ha dato qualche segno di ripresa, specie dopo le ultime edizioni che si segnalavano per una certa stanchezza nel livello della proposta. All'interno di questa consueta non-stop dedicata alla paura, si è segnalata una pellicola interessante come questo The Forbidden Door, opera a metà tra il thriller psicologico e l'horror, secondo capitolo di una trilogia che il regista indonesiano Joko Anwar aveva iniziato nel 2007 con il suo Kala.
Il film racconta dello scultore Gambir, specializzato nella raffigurazione di donne in gravidanza, la cui arte nasconde uno sconvolgente segreto. Mentre l'uomo è alle prese anche con problemi di impotenza sessuale, una serie di richieste scritte di aiuto, che sembrano seguire lo scultore ovunque vada, iniziano ad ossessionarlo mettendo a repentaglio il suo equilibrio psicologico. La chiave del mistero sembra essere nascosta in uno strano club privato in cui l'uomo viene infine introdotto, mentre sua moglie e i suoi amici sembrano nascondergli qualcosa...

Il modello dichiarato di questo film, anche nella presentazione al pubblico ad opera del regista, è quello del cinema di David Lynch. Un modello "alto" che tuttavia non sembra spaventare Joko, che dirige il "suo" film rielaborando solo alcune soluzioni (specie visive) dal più illustre collega, e girando la pellicola in modo personale e, soprattutto, con una notevole eleganza formale. Il lento digradare della vicenda verso toni sempre più onirici, anticipato da alcuni indizi disseminati nella storia (un esempio è la carrellata verso l'alto nei minuti iniziali, a inquadrare, metacinematograficamente, l'esterno di un cinema con la scritta "Now showing") è reso in modo convincente, con un senso di disagio montante che lentamente conduce lo spettatore alla soluzione del mistero. Soluzione forse non originalissima, ma comunque convincente per il modo in cui la sceneggiatura vi giunge, per l'abilità del regista nel mostrare gli effetti della paranoia crescente del protagonista, sottolineata anche da soluzioni scenografiche di grande fascino (gli interni del club, con quei lunghi corridoi drappeggiati di rosso, non si dimenticano facilmente).
Così, al di là della già annunciata esplosione splatter del finale (comunque non gratuita ma giustificata dalle esigenze narrative) a convincere è la maturità registica del film, la capacità di gestire i diversi registri narrativi di cui la vicenda si compone. Soprattutto, colpisce la capacità di piegare la povertà di mezzi a una poetica precisa: caratteristica, questa, che abbiamo ritrovato in un altro film indonesiano presentato a Udine, il thriller Fiction. (anche questo, non a caso, co-sceneggiato da Joko). Fondamentale, come annunciato dallo stesso regista nella presentazione, restare in sala fino alla fine dei titoli di coda.

Movieplayer.it

3.0/5