La vita, la morte, la famiglia, la distruzione, la speranza dell'aldilà, la lotta armata, il perdono, l'oblio. C'è tutto in Sangue, opera più intima e controversa di Pippo Delbono, divertito provocatore che stavolta trasforma in arte vicende personali come la morte della madre e l'amicizia con l'ex brigatista Giovanni Senzani. Due visioni della vita sono messe a confronto grazie ad attimi immortalati da uno strumento leggero e ormai quasi invisibile come il telefonino. La rabbia di Pippo si è sublimata in una visione ascetica e spirituale che riflette sull'aldilà, mentre la durezza di Senzani non sembra essersi stemperata del tutto. Questa collisione tra mondi opposti genera linfa vitale per il film, ma divide la critica che si concentra su alcune mistificazioni nei racconti di Senzani, tanto più che Sangue, coprodotto dalla Cinemateque Suisse, è stato fortemente voluto dal festival di Locarno che ha scelto di piazzarlo nel concorso internazionale come unico rappresentante dell'Italia. Con Delbono sono presenti a Locarno l'immancabile Bobò, a cui viene lasciato l'onore di rispondere a suo modo alle curiosità, e Giovanni Senzani che sfoggia una maglietta dedicata a Pier Paolo Pasolini quasi a voler trovare un fondamento ideologico alle scelte di vita.
Pippo, quale credi sia la valenza filmica del tuo progetto? Senti che la scelta di girare con un cellulare ti ha permesso di raccontare con più facilità delle storie universali?Pippo Delbono: Voglio specificare che il film è stato girato con il mio iPhone e con una telecamerina da 300 euro. Essendo ligure sto molto attento a queste cose. In più ho inserito le riprese di Cavallieria Rusticana, il mio spettacolo teatrale. Non ho ancora il dono dell'ubiquità e anche se ho imparato a girare con due telefoni mentre guido la macchina, non riesco ancora a riprendermi mentre sono sul palco perciò ho usato il supporto di una Canon 5D. Per me questa scelta non è un dogma, non è un'ideologia del mezzo, ma una necessità. Non potrei creare un'intimità con Giovanni con una troupe intorno. Nelle scene in cui ci troviamo in macchina eravamo io, Giovanni e Bobò. Uno che ha fatto 25 anni di carcere, l'altro 45 di manicomio, io senza patente. Immagina la scena. Quando riprendi con questa intimità la camera ti permette di cogliere un momento straordinario. Nelle scene in cui siamo io e mia madre da soli, di fronte alla malattia, ci spogliamo di tutte le maschere. Solo un iPhone poteva permettere di cogliere lo straordinario, questa è la bellezza del cinema. Oggi il cinema sta perdendo il senso della necessità. Se dovessi raccontare il mio paese e il berlusconismo userei un'attrezzatura pazzesca, ma per fermare quei momenti intimi che vedete in Sangue c'è bisogno di quei mezzi lì. Il film è costato quasi niente, ma i produttori sono amici, persone che credono in un'idea di cinema. Il loro aiuto mi ha permesso di non rinunciare alla visione bella, che per l'arte visiva è fondamentale, ma molto è stato fatto in post-produzione. Al missaggio audio abbiamo ricreato quel silenzio agghiacciante che si sentiva in camera con mia madre. La tua recitazione è quasi metafisica. La tua esperienza teatrale ti aiuta molto?
Pippo Delbono: Io ho lavorato a lungo nel mondo della danza. In Oriente l'attore è come un samurai, lavora su ogni tipo di coscienza maschile e femminile. L'attore deve perdersi, ma al tempo stesso restare lucidissimo, come i dervisci. Quando usi una camera devi applicare quella teoria lì, danzare con le braccia senza però perdere il controllo dell'immagine.
Hai scelto un supporto leggero per affrontare temi tutt'altro che leggeri, eppure rispetto ai tuoi film precedenti c'è meno rabbia. Si percepisce maggior ironia e leggerezza.
Pippo Delbono: Quando stavo filmando mia mamma, la persona più importante della mia vita, la sua morte si è trasformata in qualcosa di vivo. E' andata oltre il dolore personale. Io tenevo la mano di mia mamma mentre moriva, poi ho tirato fuori il telefonino ed ero diviso. Da una parte ero abbandonato al dolore, ma la camera cercava incredibilmente di fermare quel momento terribile. L'inquadratura della bara è un tentativo di penetrare a fondo nell'esperienza della morte di mia madre, di capire. Alla fine non era più mia madre, diventava LA madre. Il privato diventa altro, diventa politico. Tutto il cinema è politico.
Il film finisce dicendo che non si può sfuggire alla vita e alla morte.
Pippo Delbono: D'altronde sono buddista.
Giovanni Senzani: Non ho mai parlato della tortura. E' stata una scelta politica, probabilmente sbagliata. E' successo e non eravamo pronti perché la tortura colpisce a livello fisico, col dolore, ma anche sul piano psicologico. Nel 1981 hanno deciso di usare quelle tecniche anche in Italia ed è un segnale della degenerazione dello Stato. Io ero pronto a tutto, ma ogni corpo reagisce alla tortura in modo diverso. Molti giovani che si erano avvicinati alle BR si sono dichiarati militanti e di fronte alle torture sono crollati.
Pippo è stato un torturatore per te durante la lavorazione di Sangue?
Giovanni Senzani: Il film è cambiato in corso d'opera. Pippo aveva le idee chiare, io molto meno. Volevamo fondere due diversi sguardi sul mondo. Pippo ha una sua radicalità, non so se chiamarla politica o umana, ma ce l'ha. Abbiamo trovato dei punti in comune sulla visione critica del mondo, ma il film va anche in altre direzioni, mostra il nostro smarrimento.
Pippo Delbono: Da piccolo non avevo niente a che fare con la politica. Anche le pistole ad acqua mi facevano schifo. Io amavo le bambole, con tutte le conseguenze che ne sono venute. Giovanni mi voleva raccontare storie che io nemmeno volevo sentire. Una volta a Firenze mi sono addormentato e mi sono messo a russare. Quello che volevo era confrontarmi la morte. L'Italia sfugge la morte, persegue una menzogna. E' un paese ipocrita, ma per affrontare la realtà occorre fare i conti con la propria storia. Quando vedo le morti in acqua dei migranti, le stragi senza colpevoli, le persone che muoiono per i virus mentre le case farmaceutiche si rifiutano di rendere le medicine fruibili... ecco in un mondo così ingiusto io mi arrabbio. La finta moralità mi irrita. Poi però sono buddista e credo che se uccidi una persona uccidi te stesso.
Pippo Delbono: Bobò stavolta fa un cameo. Non sente, non parla, ma è un genio. E' napoletano e ruba la scena perché conosce il segreto del senso dell'arte che è il rapportarsi con la morte. Siamo noi che siamo anormali, non è lui che deve rapportarsi ai "normali". Chiamarlo poverino è un'altra finta moralità che mi dà fastidio.
Giovanni, il film è stata anche una tua idea?
Giovanni Senzani: L'idea iniziale era un viaggio di noi due, due persone smarrite in un mondo smarrito. Nel corso delle riprese abbiamo fatto i conti con il nostro vissuto. Il film è stato come una cerimonia degli addii. Noi sapevamo in anticipo che queste persone sarebbero scomparse, quindi c'è una preparazione all'addio. Ci siamo portati dietro tutti i nostri morti, quelli deceduti nel corso del film, quelli precedenti, quelli legati alla mia storia nelle BR. Ogni morte è diversa, ma al tempo stesso sono tutte uguali. Man mano che il film andava avanti, si è arricchito di coincidenze.
Sangue è un film sulla morte, ma in Italia farà polemica per la parte dedicata al terrorismo.
Pippo Delbono: A me preoccupa più un'altra questione. Molto distributori ci hanno detto che il film è bellissimo, ma non sappiamo come venderlo. La rivoluzione non è nel contenuto del film, ma nella forma. Secondo me fa più scandalo il linguaggio che il fatto che io dica che a volte mi viene voglia di uccidere qualcuno. Da buon buddista, anche a me a volte capita di avere un impeto di rabbia. Nel mondo siete tutti così buoni? Insegnatemelo allora. Io odio la violenza perché la saggezza di fondo mi insegna che non è quella la strada da seguire. Il cinema è verità e mostra il mio percorso, ma fare finta di essere buoni non ha senso.
Sangue fa paura anche perché parla di un dolore che non è sedimentabile. Rinuncia alla consolazione cristiana e riporta l'essere umano alle sue responsabilità.
Pippo Delbono:Non potrei spiegarlo meglio di come l'hai detto. Rischierei di peggiorare.
La parte del film che farà più discutere è il racconto dell'esecuzione di Roberto Peci. Quale è stato il motivo di inserire il racconto in quel modo?
Pippo Delbono: Si parla di etica e di politica, ma per me non è questo il problema. In un momento in cui io e Giovanni eravamo in crisi lui mi ha detto: "Ti voglio raccontare quella cosa lì". Io non scrivo sceneggiature, ma aspetto che la vita mi dia le sceneggiature. Giovanni ha insistito, io cercavo di rimandare, ma poi ho preso la macchina e il tempo ci farà capire perché quel momento si è verificato. Le cose hanno dei significati più profondi, che noi non capiamo. Io ho semplicemente registrato, ero curioso di vedere cosa ne sarebbe uscito fuori.