Ritorno a New York
Guida per riconoscere i tuoi santi. Già dal titolo si presenta insolita questa opera prima di Dito Montiel, premiata a Venezia con il premio della critica e al Sundance per la miglior regia. E conferma tutti i (pre)giudizi fin dalle prime battute, che alternano sguardi in macchina, autocitazioni (a partire dal nome del protagonista, che coincide con quello dell'autore), montaggio di video e audio che si rincorrono in curiosi fuorisincrono.
L'eclettico Montiel stupisce come la propria fama poteva far immaginare (da modello per Calvin Klein a cantante rock, passando per la stesura dell'omonimo libro da cui è tratta la pellicola), mettendo su quasi per caso, grazie all'amicizia con Robert Downey Jr. e all'interessamento di Sting, un film che nelle prime battute si presenta come estremamente disarticolato e disorganico, salvo poi assumere una direzione ben precisa, una cifra del tutto particolare.
Quel che colpisce e suscita interesse è la affermazione esibita del contenuto autobiografico del film. Anche se, per ammissione dello stesso regista, "i fatti narrati sono un po' diversi da come sono andate le cose" perché "la realtà è incredibilmente più complicata di quanto non la si possa raccontare in un film", il coraggio di descriversi come un ragazzo che fa fatica, un'estrema fatica, a fare i conti con la propria realtà, non è da tutti.
Il film si articola così su due piani narrativi: l'infanzia di Dito, e il suo ritorno a casa, quindici anni dopo. Il primo è quello che predomina, dal quale scaturiscono tutte le faglie conflittuali che tentativamente il protagonista proverà a risolvere dopo la sua fuga.
Dito infatti se ne va in California, inseguendo un sogno, o forse solamente scappando dai bassifondi di Astoria, nel Queens, dove "prima della fine del film Giuseppe muore, ed anche un altro ragazzo...". Le due morti segneranno a tal punto il ragazzo che la fuga è l'unica opzione percorribile, l'unica strada da seguire.
Nonostante e contro l'opinione del padre, interpretato da un tenero e malinconico Chazz Palminteri, visceralmente legato al figlio, al punto da minacciare di togliergli il saluto se l'avesse abbandonato.
Ma per un ragazzo che, pur vivendo nella grande mela, "non ha mai visto Conny Island?", le strade da intraprendere, per slegarsi da una famiglia che ami ma che ti fa volare basso, da amici a cui vuoi bene ma che ti portano su una cattiva strada.
Eppure, e qui subentra, dominando il finale, il secondo piano narrativo, quello dell'oggi, a volte, per fare i conti con i propri fantasmi, quelli che ormai sembrano sepolti in un'afosa estate dell' '86, bisogna tornare indietro, guardare in faccia i propri vicini, i propri amici, il padre e la madre.
In bilico tra Quei bravi ragazzi e Bronx, mescolandone tematiche e perizia tecnica, il film di Montiel non è di sicuro un capolavoro: la sceneggiatura a volte fa confusione, la regia non è sempre attenta e funzionale, il montaggio rischia di essere disarticolato. Ma è allo stesso tempo genuino, sincero e frizzante, offrendo sequenze che toccano le corde più profonde dello spettatore (la scena del litigio familiare ne è un valido esempio) qualità che mancano nell'asfissiante mondo del blockbuster medio, rispetto al quale Guida per riconoscere i tuoi santi è una fresca boccata d'aria.
Probabilmente perché il regista "passava di lì per caso" ("è capitato di fare un film, non so se ne farò altri" ha dichiarato), perché la storia funziona, perché mette in gioco senza censure gli scheletri nell'armadio di Montiel, perché il cast è ben assemblato.
Probabilmente un po' tutte queste cose, unita ad un'insospettata perizia tecnica generale, che rendono il film assolutamente piacevole e coinvolgente.