Recensione Warriors of the Rainbow: Seediq Bale (2011)

Un tentativo non riuscito, nonostante lo sforzo produttivo e l'evidente volontà di prendere a modello i più recenti esempi di blockbuster orientali (specie cinesi) che hanno tuttavia alle spalle realtà produttive più consolidate e professionalità di ben altro livello.

Un arcobaleno sbiadito

Taiwan, 1895. Con il trattato di Shimonoseki, l'isola viene ceduta dalla Cina al Giappone. Immediatamente si creano tensioni tra i colonizzatori e le tribù indigene, molto gelose delle proprie tradizioni; il giovanissimo Mouna Rudo, combattivo componente di uno dei clan, si fa subito notare per il suo coraggio e la sua insofferenza verso l'invasore. 30 anni dopo lo stesso Mouna, ora capo carismatico del clan, si pone alla guida di una sanguinosa rivolta, organizzata in occasione di un festival di atletica. Il piano, che prevede la distruzione di commissariati e uffici governativi, si risolve in un bagno di sangue da ambo le parti, ma la resistenza degli indigeni riesce sorprendentemente a fiaccare a lungo le preponderanti forze occupanti.

Con questo Warriors of The Rainbow: Seediq Bale, il regista taiwanese Wei Te-Sheng abbandona le piccole produzioni indipendenti con cui si era fatto conoscere (da ricordare il fortunato Cape No. 7, del 2008) e decide di imbarcarsi in un progetto dalle grandi dimensioni, per quello che è diventato addirittura il film dal più alto budget della storia del cinema taiwanese. Vedendo il film, la prima cosa che viene da pensare è tuttavia che Wei ha fatto il passo più lungo della gamba: esponente di una cinematografia che non ha, per ora, una tradizione di blockbuster pensati e realizzati per il grande pubblico, Wei appare in difficoltà con un'epopea storica che deve anche intrattenere, nonostante un nome eccellente come quello di John Woo nel ruolo di produttore. Il film, infatti, ha il principale limite di una messa in scena roboante e inutilmente enfatica, che affoga il tema politico (potenzialmente interessante) in 150 interminabili minuti di scontri, tra l'altro diretti e coreografati in modo piuttosto anonimo.

È piuttosto evidente la scarsa dimestichezza del regista con produzioni dalle dimensioni del kolossal, sia a livello di regia che di pura scrittura cinematografica: la sceneggiatura, opera dello stesso Wei, si sofferma ben poco sul lato politico della vicenda, non riesce a dare il carisma necessario al protagonista (non molto aiutata, in questo, da un esordiente Lin Ching-Tai che appare abbastanza fuori ruolo) e sceglie di sacrificare quel tema dello scontro di civiltà che poteva, in teoria, essere uno dei motivi di interesse principali per il film. La forzata epicità di molte sequenze non favorisce un'identificazione già compromessa dalla mancanza di equilibrio tra la componente storica e quella più propriamente d'azione della pellicola, mentre l'alto budget non riesce neanche ad evitare una resa del digitale sovente di cattiva qualità, che in certi punti (tra questi spicca il finale) tocca punte di vera e propria pacchianeria.

Un tentativo non riuscito, dunque, nonostante lo sforzo produttivo e l'evidente volontà di prendere a modello i più recenti esempi di blockbuster orientali (specie cinesi) che hanno tuttavia alle spalle realtà produttive più consolidate e (soprattutto) professionalità di ben altro livello. Un'occasione persa, quindi, che lascia ancor più l'amaro in bocca per l'interessante tema sprecato e per la curiosità che inevitabilmente questo suscitava: sarà per la prossima volta, viene da dire, sia per il regista sia per una cinematografia, come quella di Taiwan, che negli ultimi anni sta giustamente cercando di diversificare più possibile la sua offerta.

Movieplayer.it

2.0/5