Oggi nel mondo, almeno nel suo piccolo e sovraesposto angolo occidentale, siamo tutti protagonisti. O almeno possiamo esserlo. Ma tanti, troppi luoghi del nostro pianeta proseguono per la loro strada senza che i suoi drammi raggiungano i palcoscenici e la ribalta che meriterebbero. Senza che i loro invisibili protagonisti riescano a raggiungere gli sguardi indifferenti dei cittadini di paesi distanti, culturalmente e fisicamente.
È da uno di questi avvenimenti che prende spunto Abderrahmane Sissako per sviluppare la storia di Timbuktu, primo film in concorso di Cannes 2014, dagli eventi del 29 luglio 2012 nella città di Aguelhok nel nord del Mali, dalla lapidazione di una giovane coppia di trentenni che aveva l'unica colpa di non essere sposata. Una lapidazione immortalata in un terribile video postato online dai responsabili della punizione e che, nonostante ciò, non è stato riportato dalle cronache internazionali.
Drammi invisibili
Dalla realtà alla finzione filmica il passo è breve ed il regista concentra l'attenzione su un villaggio non lontano dal Timbuktu che dà il titolo all'opera, sulla zona in cui è cresciuto. Un luogo ora governato da fondamentalisti che impongono un regime di terrore, alterando le tradizioni locali e vietando tutti gli svaghi, dalla musica al calcio e le sigarette, imponendo rigide regole che provocano assurde sentenze per ogni infrazione. Qui vive Kidane, cercando di condurre un'esistenza pacifica con la moglie Satima ed i figli Toya ed Issan. Una vita messa alla prova dalle regole sempre nuove imposte e rovinata quando Kidane uccide il pescatore Amadou, colpevole di aver ammazzato la sua amata mucca GPS. Un reato per il quale deve affrontare la giustizia degli occupanti del villaggio.
Frammenti di vita
Il film di Sissako dipinge con calore la realtà del villaggio, intessendo le storie dei suoi protagonisti ed una serie di vividi personaggi che ruotano intorno alla famiglia che è il fulcro narrativo del film. Il suo è un ritratto carico di emotività che non trascura l'aspetto visivo e sa costruire alcune sequenze di grande impatto. Non sono pochi i momenti che lasciano il segno, che sia la poesia della partita di calcio mimata, senza pallone, o l'intimità di una canzone eseguita nel segreto delle quattro mura, o infine la crudezza dei momenti drammatici, dalla morte della mucca GPS all'esecuzione della sentenza finale. Quello che manca è un'unità di tono, in un film che procede per grandi momenti che non sempre si raccordano tra loro con fluidità e coerenza formale.
Conclusione
Seppur imperfetto nella costruzione, Timbuktu di Sissako sa emozionare lo spettatore con alcuni momenti di grande impatto ed il caldo ritratto della realtà dell'insensata oppressione fondamentalista, regalando almeno una sequenza che da sola vale un film. E non è poco.
Movieplayer.it
3.5/5