Recensione The First Aggregate (2012)

Attraverso tre piani narrativi distinti, ma (con)fusi ad arte dai due registi, la pellicola dà forma cinematografica al paradosso dell'attore di Diderot e nel contempo ci mostra la fragilità di un personaggio che sembra aver trasportato anche nella vita reale questo tormento.

Triplo sogno

Affascinante e improba impresa quella di spiegare The First Aggregate, in concorso al Torino Film Festival. L'opera diretta dall'inglese Emyr ap Richard e da Darhard Erdenibulag, originiario della Mongolia, è la storia di X, uno stuntman che torna a riprendere la vita di sempre dopo un grave incidente. Le audizioni si susseguono fino a quando, grazie all'interessamento di una donna, Y, si trova nelle condizioni di poter interpretare il ruolo di spicco in un film, il cui protagonista è uno spirito che si incarna in un attore e che dimentica la propria natura trascendente per diventare un essere umano a tutti gli effetti. L'opera gioca tutte le sue carte sull'indefinito confine tra reale e fittizio, diventando un'ammaliante riflessione sul lavoro dell'attore. Per vocazione pronto a mettersi da parte per far risuonare la maschera del personaggio, l'attore vive sulla propria pelle questa inquietudine, che bene viene mostrata nel dialogo tra X e Y sul ruolo degli interpreti. Se per Y ogni sentimento vissuto deve essere vero, per X l'emotività è un elemento secondario, visto che l'arte attoriale è un lavoro e come tale è legata esclusivamente alla razionalità, alla costruzione meticolosa del personaggio. In una parola, alla finzione. Attraverso tre piani narrativi distinti, ma (con)fusi ad arte dai due registi, la pellicola dà forma cinematografica al paradosso dell'attore di Denis Diderot (la naturalezza si ottiene solo attraverso il metodo) e nel contempo ci mostra la fragilità di un personaggio che sembra aver trasportato anche nella vita reale questo tormento.

Il protagonista, Huntun Batu, vaga alla ricerca della giusta casa da abitare, del copione più adatto a farlo ripartire, gironzola attraverso le macerie della propria città scattando foto. Ogni tanto compare all'orizzonte la sua donna, forse più propensa di lui a vivere con pienezza e per questo pronta ad una separazione che lo mette in crisi. Il tono del racconto è sommesso, i movimenti di macchina ridotti all'osso, i silenzi prendono il posto delle parole e se capita di iniziare una discussione su un qualunque argomento, sia esso l'amore o la morte, si parla attraverso favole, metafore. E' innegabile quindi il fascino di un'opera che sfida lo spettatore a farsi travolgere da un flusso ininterrotto di immagini, a seguire un tempo diverso da quello cronologico, come simboleggia la sveglia di X che misteriosamente si rompe (ma ha funzionato anche senza una rotellina dell'ingranaggio). Emyr ap Richard e Darhard Erdenibulag ci dicono che è possibile appassionarsi ad una trama che poggia su pochi indizi; tuttavia in questo rincorrersi di situazioni, mescolate senza stacchi evidenti si rischia di perdere la bussola. E il senso di spaesamento può prendere il sopravvento su tutto il resto. Forse bisogna lasciarsi andare, non pretendere di controllare tutto per poter apprezzare in pieno la bellezza di un'opera del genere, penalizzata solo dalla mancata coerenza dei tre differenti piani narrativi su cui è costruita la storia. Interrogarsi continuamente sul senso delle immagini, però, accapigliarsi per trovare la soluzione più plausibile è quanto di meglio ci si possa attendere da un film, inteso non come prodotto confezionato, ma come composizione in grado di liberare la fantasia dello spettatore.

Movieplayer.it

3.0/5