Recensione The Congress (2013)

Folman costruisce una critica poco velata e piuttosto chiara all'intero sistema dell'entertainment che, piegatosi alla necessità di ricreare una perfezione invidiabile ed emulabile da occhi esterni, rende l'artista un accessorio di cui usare solo l'involucro rinunciando senza rimpianto alla sua anima imperfetta.

A Futurological Life

All'inizio del terzo millennio le compagnie farmaceutiche sembrano aver preso il potere, imponendo una vera e propria dittatura chimica. In questo modo, lontani anni luce dalla volontà di perseguire la salute pubblica, condannano l'umanità ad un uso illimitato di stupefacenti con i quali tenerla sotto controllo, dettando il ritmo e le ragioni di ogni più piccola emozione. In questo modo, passando dalla paura, all'amore fino anche alla rabbia, i singoli perdono la possibilità di vivere e determinare liberamente i propri stati d'animo, abbandonando anche ogni speranza di essere padroni delle proprie esistenze. Questa è la base fantascientifica, anche se non poi molto, dal quale l'israeliano Ari Folman è partito per costruire l'impianto narrativo del suo visionario The Congress. Ispirato alle pagine di The Futurological Congress di Stanislaw Lem, il regista, però, decide di andare oltre la base del romanzo per costruire una critica ai vizi pubblici della nostra epoca utilizzando il mezzo cinematografico in tutte le sue possibilità tecniche, visive, narrative e introspettive. Costruendo l'intera architettura del suo racconto sulla contrapposizione di un universo reale ad uno puramente illusorio e indotto, Folman decide di utilizzare come voce guida, un'attrice che, attraverso una femminilità allo stesso tempo dolce e struggente, si candida ad essere la vittima predestinata di una società dedita all'adorazione dell'immagine.

Così Robin Wright accetta d'interpretare se stessa come simbolo di un'umanità in declino. Attrice troppo "difficile" ed emotiva, accetta la proposta della casa di produzione Miramount di essere scannerizzata con il fine di avere a disposizione un interprete perfetto, sempre a disposizione, flessibile a qualunque ruolo, sfruttabile illimitatamente e, soprattutto, privo di personalità e necessità capaci d'intralciare o frenare la realizzazione del progetto. In questo modo l'individualità viene barattata senza troppi preamboli con una facciata da modificare senza fatica, il cui scopo è quello di creare per il pubblico il sogno o l'illusione di un riflesso tanto perfetto quanto inesistente. È evidente che, partendo da questi presupposti, il regista costruisce una critica poco velata e piuttosto chiara all'intero sistema dell'entertainment che, piegatosi alla necessità di ricreare una perfezione invidiabile ed emulabile da occhi esterni, rende l'artista un accessorio di cui usare solo l'involucro rinunciando senza rimpianto alla sua anima imperfetta.
Da qui nasce il simbolo che, per sua stessa definizione e per la volontà d'incarnare una perfezione universalmente desiderata, si trasforma in una droga fisica e culturale cui le masse cedono il passo. In questa prospettiva, ad essere oggetto di desiderio non e più la fama o la ricchezza, ma la volontà di diventare, fino anche nelle sensazioni più profonde, chiunque altro purché al di fuori da noi stessi. Una sorta di realtà parallela allucinogena che Folman decide di rappresentare nella seconda parte attraverso il mezzo espressivo a lui più congeniale, ossia l'animazione. Anzi, proprio grazie allo studio e all'utilizzo dello stile cartoon anni Trenta, il regista decide di raccontare l'evidente finzione di un mondo a tratti farsesco e totalmente destabilizzante. Un universo dove è possibile sentirsi onnipotente, affascinante, potente e invincibile ma dove la percezione di se stessi è sottoposta a una continua manipolazione fine a perdere coscienza della linea sottilissima che divide il reale da ció che non lo è. Perché sognare può essere consolatorio e spesso necessario, ma indulgere nella menzogna è un viaggio senza ritorno verso la perdizione.

Movieplayer.it

4.0/5