È tutto sbagliato, tutto da rifare
Spesso si tende a dimenticare che il cinema giapponese continua a vantare una vitalità e una tale varietà di stili da poter quasi contenere tutte le maggiori tendenze del cinema contemporaneo. Ce lo ha ricordato qui a Udine per la 16esima edizione del Far East Film Festival un film come Tamako in Moratorium, sommesso e delicato ritratto intimista al femminile non troppo lontano dal solido insegnamento di Yasujiro Ozu.
La depressione allegra
Protagonista di Tamako in Moratorium è la ventitreenne Tamako che, laureatasi in città, è tornata nel suo piccolo paese di provincia per vivere insieme al padre divorziato. Il genitore gestisce un negozio di articoli sportivi e lei passa le sue giornate in un "dolce far niente", mangiando, dormendo, leggendo manga, guardando la TV e nulla più. Dopo Linda Linda Linda che nel 2006 passò al Far East entusiasmando tutti gli amanti dei teen-movie dal sapore un po' amarognolo, il cineasta giapponese Nobuhiro Yamashita ci regala un altro sguardo sentito e sincero sul mondo femminile e sulla solitudine post-adolescenziale. Tamako non è palesemente depressa, non si lascia andare a crisi di pianto o quant'altro, non si lamenta della sua condizione; si limita semplicemente a vivere senza pensare e senza fare nulla. Yamashita descrive la sua protagonista con grande affetto e senza giudicarla ed è perciò impossibile non riuscire a identificarsi con lei, con il suo inespresso pessimismo cosmico. Il tono adottato è dunque quello della commedia amara, dei piccoli tocchi leggeri sui vizi del personaggio e sulle sue debolezze. Eppure, dietro la commedia, si cela un horror vacui impalpabile, ma presente come un fantasma che aleggia tra un'inquadratura e l'altra. L'unica concessione visibile a questa disperazione viene tra l'altro traslata da Yamashita su uno dei personaggi secondari del film: un'amica di Tamako che, in procinto di riprendere il treno per tornare in città, piange disperata senza apparente motivo e senza bisogno spiegazioni.
All'inizio del film, Tamako ripete un paio di volte, prima di mangiare, che il Giappone è senza speranza. Questo suo atteggiamento provoca presto la reazione del padre: secondo lui non è il Giappone ad essere senza speranza, quanto sua figlia. Ma ecco che diviene immediatamente chiaro il discorso di Yamashita: sullo sfondo, attraverso i vari TG che Tamako guarda, si parla della crisi giapponese, sia di quella del sistema politico sia - in modo molto più accennato - di quella di Fukushima. Dunque Tamako diventa - senza alcuna sottolineatura ideologica e, anzi, in modo del tutto naturale - il simbolo della sfiducia del Giappone verso il futuro. L'inazione della ragazza è il sintomo della consapevolezza di quanto in fondo sia tutto senza senso e privo di logica, di quanto sia inutile costruire città, preparare da mangiare, stendere i panni, perché nulla ha un obiettivo, tutto è privo di finalità. È riuscitissimo in tal senso il rapporto che Tamako ha con suo padre, un uomo di mezza età che si comporta ancora - ingenuamente - come un buon cittadino che crede nel quieto vivere e ha una naturale fiducia verso il mondo circostante.
L'umanismo Tamako in Moratorium è un ottimo esempio di cinema umanista e, al di là del pessimismo di fondo, ci fa ben sperare per il futuro del cinema giapponese: evidentemente vi sono ancora dei registi capaci di raccogliere la grande lezione di Ozu, della semplicità della sua messa in scena, della ritualità del vivere dei suoi personaggi e di quel senso di vuoto che aleggia intorno a loro. Ma il film di Yamashita parla non solo al suo paese quanto a tutti le nazioni industrializzate, a quell'Occidente che ha smesso di credere alle "magnifiche sorti e progressive" di leopardiana memoria. In tal senso, la figura di Tamako, senza un lavoro e senza alcuna aspettativa verso il futuro, potrebbe essere trasposta senza problemi anche in Italia. E chissà che a qualcuno non venga in mente di farne un remake.