Una vendetta normalizzata
Dopo l'approdo di Park Chan-Wook in America, l'atteso rifacimento del suo film più noto ha visto finalmente la luce. Storia travagliata, quella di questo Oldboy made in USA: progetto passato da un Justin Lin non ancora "prestato" alla saga di Fast & Furious, a uno Steven Spielberg che doveva avvalersi di un improbabile Will Smith protagonista (vengono i brividi a pensare a quale impronta misticheggiante quest'ultimo avrebbe potuto dare al film); per approdare infine tra le mani di Spike Lee, alla sua prima esperienza con un remake. Questi, da par suo, è reduce da una serie di documentari e da un prodotto indipendente come Red Hook Summer: il suo ritorno al cinema mainstream, con un progetto di per sé così a rischio (prototipo cult di pochi anni fa, dal taglio molto personale e dalla grande fortuna critica) destava in ugual misura curiosità e perplessità. Va detto che i giudizi d'oltreoceano sono stati in larga parte ingenerosi, verso questo remake: dettati, forse, più dall'inevitabile confronto con un modello così "ingombrante" (perché di vero e proprio remake si parla, va ricordato, e non di una nuova versione del manga di Garon Tsuchiya e Nobuaki Minegishi) che da un'analisi spassionata del prodotto. Ma, forse, è proprio quest'ultima la cosa più difficile, per una storia come quella di Oldboy: troppo forte è la sua componente emotiva, il suo legame con alcuni dei tabù della società moderna (tanto orientale quanto occidentale) nonché troppo vivido il ricordo, malgrado i dieci anni trascorsi, della pellicola del 2003. Il regista afro-americano, insomma, ha accettato di imbarcarsi in un progetto dai molti rischi, il cui risultato presenta luci e ombre.
Partiamo dalle prime. Va dato atto a Lee, e allo sceneggiatore Mark Protosevich, di aver provato a dare una lettura personale alla storia; evitando di traslare pedissequamente, in un contesto occidentale, una vicenda che trasudava delle inquietudini e dell'attitudine visionaria di un autore come Park, nonché degli eccessi e dell'iperrealismo dovuti alle sue origini fumettistiche. Quello di Lee è un thriller americano, un revenge movie dal taglio classico, che, pur offrendo qualche virata grottesca, mantiene nel suo complesso uno stile piuttosto rigoroso. Il regista sceglie di dilatare, rispetto all'originale, la parte dedicata al soggiorno del protagonista nel luogo di prigionia; oltre ad averne aumentato, nella storia, il periodo temporale (da 15 a 20 anni). Risolta, nel film di Park, nel giro di un quarto d'ora, questa parte diventa uno dei punti fondamentali di questo remake; in cui, tra l'altro, possiamo apprezzare la trasformazione di un convincente Josh Brolin, da vacuo ed egoista yuppie a individuo lucido nel suo proposito di riconquistare la libertà. Viene data una maggiore enfasi, in questo segmento, all'accusa di omicidio rivolta al protagonista, nonché alla sua voglia di riabbracciare sua figlia; il televisore montato nella sua cella diviene non solo finestra sul mondo, e sui suoi cambiamenti nel corso di un ventennio, ma anche catalizzatore dei desideri dell'uomo in vista di una possibile riconquista della libertà. Il film abbozza un'interessante riflessione, spiegata nel finale, sul potere mistificatorio dei media, e in special modo dell'immagine televisiva; allo stesso modo, vengono messi maggiormente in risalto lo spaesamento, e il senso di vertigine, provati dall'appena liberato Joe, nello scoprire un mondo molto più interconnesso di quello che aveva abbandonato. Con un azzardo critico, potremmo persino giustapporre il mutato contesto sociale, che ha in teoria rimpicciolito il mondo, alla frustrata voglia di "connessione" del protagonista con un affetto che gli è stato strappato; questa diventa, insieme alla vendetta, motivo portante della sua ricerca. Al di là di queste suggestioni, comunque solo accennate, resta il fatto che questa versione hollywoodiana di Oldboy rimane, nel suo complesso, troppo debitrice al film di Park Chan-Wook; ricalcato, seppur a grandi linee, in tutta la sua seconda parte, emulato nelle sue sequenze più emblematiche (tra cui il celeberrimo piano sequenza del martello), rincorso nella graficità di molte sequenze, nel carattere grottesco di alcuni personaggi (il carceriere interpretato da Samuel L. Jackson), persino in alcune aperture visionarie; con particolare riferimento a queste ultime, in special modo ai ricordi del protagonista e alla sequenza finale, il confronto, per Spike Lee, si rivela impietoso. E' inevitabile, guardando il film, provare la sensazione di uno sguardo normalizzato, in cui la complessità di una vicenda di vendetta e corruzione morale, contrassegnata da un occhio lucido e pessimista sulla natura umana, viene portata sul terreno di un semplice action thriller, pur di buona fattura. Lee prova a ricalcare, specie nella resa degli interni, la complessità della costruzione scenica di Park, ma l'aver inseguito il film sudcoreano su questo terreno si rivela una scelta perdente; le interessanti premesse poste nella prima parte, in cui la sceneggiatura provava a caratterizzare in modo diverso e più personale il protagonista, si perdono in una seconda metà poco incisiva, anche nella resa del rapporto con la co-protagonista Elizabeth Olsen. L'aver stemperato la love story con quest'ultima, dando ad essa una caratterizzazione meno esplicita, ha probabilmente contribuito a rendere meno shockante, in sé, il twist finale; diciamo probabilmente in quanto, com'è ovvio, non possiamo averne la controprova, essendo perfettamente a conoscenza del twist. Che Spike Lee sia un cineasta in grado di gestire bene anche i registri del thriller, e di offrire in questo contesto ottimi pezzi di bravura registica, era già noto (almeno) dai tempi di Inside Man; che qui, però, sia penalizzato da un progetto nato con mere finalità di "sfruttamento" (di un modello eccellente) è cosa altrettanto evidente. La legge del remake, già ampiamente sperimentata nel corso dell'ultimo decennio, non ha qui fatto eccezione.
Movieplayer.it
3.0/5