L'orrore necessario
Corea del Sud, 1985. Il paese è governato col pugno di ferro dalla dittatura militare, appoggiata dagli USA e storicamente contrapposta al regime comunista del nord. Tra i movimenti che chiedono diritti civili e democrazia, si distingue in particolare la Democratic Youth Coalation, che ha come figura chiave quella del suo fondatore Kim Jong-tae. In una giornata d'autunno come tante, Kim viene prelevato davanti alla sua famiglia da un gruppo di poliziotti, e condotto in un carcere speciale. Qui, resterà recluso per 23 giorni, subendo indicibili torture che lo porteranno a un passo dal collasso psico-fisico. Due anni dopo, il movimento per la democrazia ottiene il suo primo successo: la Costituzione viene modificata e vengono indette libere elezioni presidenziali. E', di fatto, la fine della dittatura. Kim, che ha rivelato volti e nomi dei suoi torturatori, intraprende con successo la carriera politica, riuscendo a diventare parlamentare e poi ministro. Anni dopo, l'uomo accetta di incontrare in carcere il suo principale aguzzino, l'ex ispettore di polizia Lee Guen-an: questi, condannato per le torture inflitte a decine di prigionieri politici, ha cercato conforto nella religione cattolica, dichiarandosi pentito e divenendo un sacerdote. Ma è possibile davvero perdonare violenze del genere?
Il Far East Film di Udine è da sempre un festival di cinema popolare, di quello che in Asia riscuote consensi e incassi, pensato e realizzato principalmente per il grande pubblico. Accanto ai film di genere, tuttavia, il festival friulano ha sempre dedicato un certo spazio (negli ultimi anni non indifferente) a proposte di maggior impegno: opere che parlano il linguaggio del pubblico, ma che attraverso questo vogliono affrontare temi di un certo spessore, magari scomodi o dolorosi. E' precisamente il caso di questo National Security, giunto al Far East con una deflagrazione annunciata, ma non per questo meno shockante per gli spettatori che l'hanno subita. La collocazione nel primo pomeriggio (ma è stato un destino, finora, comune a molte, valide pellicole di questa edizione) ha impedito che un maggior numero di persone ne subissero l'impatto: fortunati loro, viene da dire a caldo dopo la visione del film. Ma è, questa, una considerazione parziale, bugiarda, viziata dall'insostenibilità di quanto mostrato dalla pellicola di Jeong Ji-yeong. Per offrire un termine di paragone, il più ovvio, basti pensare alle sequenze del waterboarding del recente Zero Dark Thirty di Kathryn Bigelow, rese ancor più dure e spalmate su una fetta ben più ampia di film: le violenze subite dal protagonista (un Park Won-sang che è innanzitutto corpo che si offre al martirio) occupano un buon 80% dei 106 minuti di film. Troppo, per chiunque abbia un cuore e una coscienza civile degna di tale nome; eppure, allo stesso tempo, non abbastanza, per come tali eventi restano sconosciuti ai più, coperti da un velo di silenzio che cela complicità (soprattutto occidentali) che restano fonte di giustificata vergogna. Con le considerazioni storiche e politiche derivanti dalla visione del film di Jeong Ji-yeong si potrebbero riempire le pagine di un saggio; ma non è questa la sede adatta. Preme qui sottolineare, però, come il cuore vibri di orrore, rabbia e indignazione per ciò che la pellicola, in modo violento quanto necessario, riversa sullo schermo. E' difficile, quasi impossibile, in questo caso, separare il giudizio critico dalla reazione emotiva che la visione porta con sé: ma non bisogna dimenticare (e non lo ripeteremo mai abbastanza) che il provocare emozioni, anche violente, è tra gli scopi principali del cinema. Se poi, come in questo caso, tali emozioni stimolano la riflessione su una pagina di storia a noi vicina temporalmente (parliamo di neanche 30 anni fa) quanto geograficamente (i complici di quest'orrore sono i paesi occidentali nostri alleati) allora qualsiasi dubbio può essere fugato. National Security è un film fondamentale e prezioso. Un'opera che non si tira indietro di fronte alla graficità, ai dettagli, alla bestialità umana espressa senza remore o freni. Nulla ci viene risparmiato, di ciò che il protagonista, nel claustrofobico spazio della sua prigione, ha dovuto subire; solo i sogni, le allucinazioni, nonché brevi flashback, permettono momentanee quanto effimere fughe. Come un Saw - L'enigmista più tangibile, fisico, e purtroppo reale. Privato, soprattutto, di quella pornografia dello sguardo che ha caratterizzato tanto horror (e non solo) dell'ultimo decennio: mai, qui, dubitiamo della legittimità, etica ed estetica, del registro scelto dal film. La sequenza finale, e soprattutto il dettaglio che chiude la pellicola, è a questo proposito più esplicita di mille parole: la risposta al quesito che ponevamo sopra è persino scontata. Perdonare, per chiunque abbia subito tutto ciò, è certamente impossibile; dimenticare, se pure (per ipotesi) risultasse possibile, sarebbe semplicemente sbagliato.Movieplayer.it
4.0/5