Lulu ha i capelli arruffati e una pallottola nel petto. E' sfuggita ad un amico, dice al medico che la cura. L'amico in questione, Lucas, è in realtà il suo fidanzato, un ragazzo che vive ai margini di Buenos Aires passando le sue giornate a sparare contro le statue o compiendo piccoli atti criminali. Solo per il gusto di farli. Lulu ha lasciato la casa paterna da tempo ormai, nonostante sia ancora molto legata al fratellino e al padre, bloccato da tempo in un mutismo misterioso e afflitto da una grave malattia.
Film come Lulu possiedono quella rara capacità di spiazzare lo spettatore, di obbligarlo a seguire la storia con partecipazione totale e dedizione. La presentazione al Festival Internazionale del Film di Roma della pellicola diretta dall'argentino Luis Ortega, già vista a Toronto, ci permette quindi di confrontarci con un'opera sfuggente e affascinante al tempo stesso, una creatura indefinibile, appesantita forse da un eccessivo ricorso al simbolismo. Non c'è una storia classicamente intesa, ma il cineasta, al suo sesto lungometraggio, ci porta per mano per le strade di una Buenos Aires illuminata in maniera del tutto naturale, assieme ai protagonisti, due ragazzi borderline che vivono la propria marginalità senza traumi, quasi fossero inconsapevoli di essere altro rispetto al loro contesto urbano.
La realtà è incubo
Nato a Buenos Aires nel 1980, Luis Ortega è un cineasta prolifico nonostante la sua età (la sceneggiatura del suo debutto registico, Black Box del 2002, fu scritta ad appena 19 anni) e ci sembra perfettamente inserito nella new wave cinematografica argentina, costituita per gran parte da autori giovani sempre più interessati a opere più oniriche che realistiche; come se la realtà fosse raccontabile solo con un approccio surreale. Per questo non dovete aspettarvi alcun comportamento "normale" dai due protagonisti, poiché essi, interpretati da Ailin Salas e Nahuel Pérez Biscayart, non conoscono la norma.
Lucas fa rapine in farmacia, poi si mette a ballare sul bancone, insegue una sconosciuta incontrata in metropolitana, intreccia con lei, madre di un bambino, una relazione "anomala", assaggiando il latte materno dal seno della donna, litiga con gli automobilisti e disturba gli avventori di un bar e usa la pistola come valvola di sfogo. Se questa follia vi sembra in realtà patologia, forse non vi siete allontanati troppo dalla verità.
La realtà è assurda
Il lungometraggio di Ortega si segnala per il buon equilibrio raggiunto tra messa in scena realistica e impennate simboliche inaspettate, come la presenza continua di un cavallo che compare nei momenti più improbabili o quella dell'autista del camion per cui Lucas lavora, un vecchio signore, il musicista argentino Daniel Melingo, che fa il giro dei macellai della città per raccogliere carcasse di animali e che suona il clarinetto mentre guida. Tuttavia nessuno di questi elementi "prodigiosi" sembra aver senso fino in fondo, o se ce l'ha resta completamente oscuro a chi vede il film.
Non mi interessa rappresentare la realtà, a quello ci ha già pensato il neorealismo
Conclusione
Le parole di Luis Ortega sono una dichiarazione di intenti molto chiara e per certi versi condivisibile. Crediamo che il continuo sfiorarsi-sovrapporsi di realtà e immaginazione sia molto evocativo, bello, per usare un termine sintetico ma esaustivo; pensiamo, però, che un regista debba dare una chiave di lettura per entrare nel suo mondo e provare a decifrare i messaggi nascosti nella sua storia, che altrimenti resterebbe fine a sé stessa. Il rischio, quindi, è che il giusto desiderio di proporre un lavoro nuovo, spiazzante, si trasformi nella realizzazione del più classico film da festival, ammaliante per certi versi e respingente per altri.
Movieplayer.it
2.5/5