Siamo tra le Alpi piemontesi, a fine '800. I genitori del piccolo Cino, afflitti dalla povertà, decidono di affidare il figlio, per i mesi estivi, a un carrettiere francese; questi "affitta" i bambini ai proprietari degli alpeggi estivi siti oltreconfine, dove i piccoli vengono fatti lavorare in condizioni molto simili alla schiavitù. Durante il viaggio verso la sua destinazione, Cino stringe amicizia con Catlìn, una bambina povera come lui, ma dall'animo positivo e dalle sorprendenti doti di intuizione; durante il viaggio, però, la piccola si ammala di polmonite e viene abbandonata in un paese incontrato sul tragitto.
Giunto a destinazione, Cino resiste ben poco alle dure condizioni di lavoro e alle angherie del crudele padrone; appena ha l'occasione, scappa tra i monti, ritrovando inaspettatamente Catlìn. I due, così riunitisi, tentano un impossibile ritorno a casa a piedi attraverso le Alpi: durante il percorso, incontreranno presenze umane amichevoli, ma anche minacce immateriali, forse frutto della fantasia di due bambini in fuga, o forse no...
E' un esordio singolare, quello di Carlo Alberto Pinelli: il regista, infatti, figlio del grande sceneggiatore Tullio Pinelli, e con una lunga carriera di documentarista alle spalle, dirige a 76 anni il suo primo lungometraggio di fiction. Lo fa scegliendo il cinema per ragazzi, con un'opera dall'impianto fiabesco (la fiaba di Pollicino è rievocata fin dal titolo) che ha ricevuto anche, per i suoi temi, il patrocinio dell'Unicef italiana.
Pedagogia e fiaba
Ispira sicuramente simpatia, e merita sostegno, un film come La storia di Cino. Ciò, principalmente per ragioni extra-cinematografiche: il tema del lavoro minorile, qui affrontato in modo neanche troppo implicito, è argomento tuttora, disgraziatamente, d'attualità, anche in un contesto storico/sociale molto diverso da quello mostrato dal film. L'idea che piace e convince, del film di Pinelli, è quella di mettersi "ad altezza di bambino", e toccare questi temi attraverso una storia dai contorni fiabeschi, che consta anche di un racconto di formazione dagli accenti dickensiani. Sono gli spettatori più giovani i destinatari principali del film, e la loro attenzione è immediatamente sollecitata dalla struttura lineare, dalla semplicità e dall'immediatezza dei personaggi presentati, dalla dimensione avventurosa del viaggio e dagli accenti fantastici disseminati nella storia.
Nonostante gli intenti pedagogici dell'opera, e la sua scelta per un impianto fiabesco, il film di Pinelli non manca tuttavia di una base realistica: miseria e sfruttamento sono mostrati, sullo schermo, senza mezzi termini o mediazioni, arrivando anche a punte di crudo realismo (l'interesse sessuale mostrato per il ragazzino dal malvagio padrone). Lo sguardo del regista, sul contesto sociale e umano raccontato, consta di equilibrio ed empatia: è chiara fin dall'inizio la natura sofferta della scelta dei genitori del piccolo protagonista, il tormento da loro attraversato e la dura realtà della condizione sociale da loro vissuta. In pochi minuti, la sceneggiatura delinea con efficacia un universo di degrado e povertà, in cui la realtà degli affetti si scontra con la dura necessità di sopravvivere.
Occhio di documentarista
Non si può, tuttavia, esimersi dal sottolineare alcuni limiti, forse inevitabili, in questo esordio di Pinelli. Malgrado il regista, forte della sua lunga esperienza nel documentario, riesca a cogliere bene i dettagli del paesaggio che spontaneamente si offrono alla sua macchina da presa, la messa in scena del film soffre, nel suo complesso, di un impianto eccessivamente televisivo (nel senso più deteriore del termine). Complice, forse, il basso budget, le scelte di fotografia non sempre valorizzano al meglio le potenzialità offerte dalle scenografie naturali, sfondo potente e ricco di suggestioni per il viaggio dei due protagonisti; questi ultimi, da par loro (nei volti dei giovanissimi Stefano Marseglia e Francesca Zara) mostrano sì l'entusiasmo e la voglia di fare di due piccoli attori ai propri esordi (o quasi), ma anche qualche limite a livello di spontaneità.
Alcuni limiti li denuncia anche la sceneggiatura, in dialoghi a volte troppo elementari (rivolgersi a un pubblico più giovane non deve necessariamente significare semplicismo) mentre quell'elemento fantastico che pure, laddove emerge, dona fascino e attrattiva alla storia, poteva forse essere sfruttato meglio e con più continuità. La scelta di immergere la vicenda nelle antiche leggende delle valli alpine, col doppio binario, per i protagonisti, di un pericolo reale (rappresentato dal freddo e dalla fame) e uno immateriale (la presenza delle streghe avvertite dalla piccola Catlìn) è un elemento dall'indubbio potenziale narrativo; potenziale che però la sceneggiatura, a volte incerta sul tono da far assumere alla storia, non sempre valorizza al meglio. Resta il fatto che il twist finale, che costringe a ripensare e ripercorrere mentalmente il film a ritroso, ha la sua indubbia efficacia drammaturgica, rinforzando anche il carattere di romanzo di formazione dell'intera storia.
Conclusioni
La storia di Cino, malgrado i limiti narrativi e di messa in scena da cui è afflitto, si rivela un interessante esempio di film per famiglie nostrano, che ha il merito di non far annegare un messaggio importante (e attuale) nella melassa. La sua doppia natura fiabesca e di racconto realistico, nonostante i rischi a cui lo espone, rende il film di Pinelli appetibile per gli spettatori più giovani, suo target naturale e fascia di pubblico che, per le sue caratteristiche, è quella potenzialmente più ricettiva al messaggio e alla struttura narrativa adottata dal film.
Movieplayer.it
3.0/5