Tra il 1972 e il 1981, il colonnello polacco Ryszard Kukliński collaborò attivamente con i servizi segreti americani, al fine di scongiurare una nuova Guerra Mondiale. Personalità tra le più controverse della recente storia della Polonia (fu considerato da molti un traditore, nonostante le sue azioni abbiano giocato un ruolo fondamentale per l'annessione della sua nazione alla NATO), Kukliński è il protagonista del film diretto da Wladyslaw Pasikowski, Jack Strong, presentato al 32.mo Torino Film Festival nella sezione Festa Mobile.
Ed è un curioso lavoro questo lungometraggio che nella sua confezione accurata ed estremamente precisa, ricorda in tutto e per tutto gli stilemi della più classica delle spy story dedicata alla Guerra Fredda. Negli ultimi tempi diverse sono state le riletture di questo genere così particolare, che ha avuto il suo boom negli anni '60, in piena crisi internazionale, con l'esplosione della saga di James Bond e, successivamente, con una buona serie di adattamenti cinematografici di libri di spionaggio. E' interessante, quindi, notare come l'esponente di una cinematografia anti spettacolare come quella polacca si sia voluto confrontare con una serie di modelli piuttosto ingombranti.
Come ho imparato ad amare la bomba (e a non preoccuparmi)
Pasikowski fa del suo meglio per non far apparire il suo Jack Strong come una pallida copia di opere più importanti, pur tenendo ben chiari gli elementi chiave di una produzione di questo tipo: una storia appassionante, e quella di Ryszard Kukliński, interpretato da Marcin Dorocinski, lo è davvero, la ricostruzione di un'epoca in cui tante erano le possibili chiavi di lettura di avvenimenti epocali, frutto di una società costruita sulla nettissima contrapposizione dei due blocchi, quello sovietico e quello americano, l'esaltazione di un congegno narrativo basato su una serie di incastri cronometrici.
La visione del film rende sufficientemente soddisfatti per quanto concerne l'aspetto puramente "decorativo". La rielaborazione di uno stato d'animo, ancor prima che la semplice questione delle ambientazioni, ci è sembrata efficace. In quegli anni la sensazione della privazione della libertà era soffocante e il regista bene illustra il meccanismo, descrivendoci un protagonista all'apparenza perfettamente integrato nel meccanismo, in realtà disgustato e insofferente ad esso. Tuttavia i suoi tormenti interiori, l'ambiguità legata ad una scelta morale ben precisa, tradire i suoi superiori per scongiurare un pericolo più grande, poco viene messa in risalto nel racconto, che procede spedito fino alla fine, senza mostrare il minimo turbamento del personaggio principale. O meglio, di situazioni in cui l'eroe sembra crollare ce ne sono molte, arriva addirittura ad un passo dal suicidio, pur di non sottomettersi, eppure sono crepe che non diventano mai sostanziali o funzionali alla narrazione. E' una scelta ben precisa compiuta, crediamo, in sede di scrittura della sceneggiatura che alla fine risulta meno intensa di quanto avrebbe potuto essere.
Siamo figli dell'epoca, l'epoca è politica
Migliore, invece, la riflessione su di una nazione che in quegli anni si stava interrogando dolorosamente sulla propria identità, sulle proprie radici, in primis sul legame con il cattolicesimo; il rapporto tra URSS e Polonia diventa un elemento fondamentale per la piena comprensione delle pellicola, come bene viene evidenziato nella bella sequenza della festa di capodanno in cui la cantante viene obbligata, al cospetto di un gruppo di militari, a intonare l'inno polacco, salvo poi lanciarsi nell'interpretazione di un classico della musica popolare russa.
In quasi due ore di racconto Pasikowski si limita a tratteggiare la storia del suo paese, lasciando solo intravedere come si siano infrante le speranze di chi credeva fermamente in un cambiamento, ad esempio, nella Primavera di Praga ("Non faremo come i cechi che si sono arresi, vero?" dice la moglie di Kukliński in un dialogo notturno). Non solo la fine del sogno democratico di Alexander Dubček, quindi, ma anche la nascita della Solidarnosc di Lech Wałęsa restano solo accennati e il film esce purtroppo impoverito da questa decisione narrativa, poiché il momento storico necessitava di un'indagine più minuziosa.
Nome in codice: Jack Strong
Non ci chiediamo quindi se abbia senso dirigere oggi una spy story, La talpa di Tomas Alfredson e perfino La Spia - A Most Wanted Man di Anton Corbijn dimostrano che si può reinterpretare un genere di ferro come questo, quanto se abbia valore dirigerne una così "netta", in cui buoni e cattivi sono chiaramente identificabili, senza sfumature o ambiguità di sorta. Wasikowski ci fornisce tutti gli elementi identificativi di cui abbiamo bisogno, una guerra nucleare imminente, l'alacre lavoro degli uomini dell'Intelligence (segnaliamo anche Patrick Wilson nei panni di una spia americana), l'ingombrante presenza di politici come il terribile Leonìd Brèžnev, che sulla scrivania fa sfoggio dell'orsetto Misha, mascotte dei Giochi Olimpici di Mosca 1980. Insomma, ogni cosa è come ci immagineremmo che sia, compreso un protagonista che, lungi dall'essere inquieto, paga comunque il prezzo più alto, vedendo morire i suoi due figli in circostanze misteriose e quando tutto sembra rientrato nella "normalità".
Conclusioni
Se anche una cinematografia come quella polacca riesce a produrre un'opera mainstream confezionata in modo molto spettacolare, con una caccia finale alla spia, in cui il crescendo di tensione è notevole, non possiamo non provare curiosità verso Jack Strong e va dato atto a Wladyslaw Pasikowski di aver diretto un film che, pur ripetendo gli stilemi della spy story, riesce ad aprire un varco sulla recente storia polacca, oltre che realizzare un prodotto estremamente godibile. Se il film fosse stato appena meno retorico, più delicato nelle sfumature, e non si fosse lasciato prendere da un manicheismo troppo forte, l'operazione, che comunque resta degna di nota, ne avrebbe tratto ulteriore giovamento.
Movieplayer.it
3.0/5