Ci sono luoghi che risuonano delle storie che li attraversano, che si impregnano della loro essenza, o che semplicemente diventano crocevia di vite, personaggi, volti e anime. Ci sono luoghi che più di altri si prestano a questo tipo di considerazione, proprio per la loro natura e la loro funzione, perché permettono l'incontro di personaggi diversi tra loro, che abitualmente vivono vite distinte e frequentano ambiti diversi.
Luoghi come ospedali, stazioni, aeroporti, ma anche aule di tribunale, come in Court, presentato, e premiato, nella sezione Orizzonti alla 71ma edizione della Mostra del Cinema di Venezia, un dramma che racconta procedimenti e tempi giudiziari, ma senza trascurare l'aspetto umano, raccontando le vite dei protagonisti del processo con le loro differenze ed attitudini. Un film che ha ricevuto ben due premi a Venezia 2014, sia come miglior film della sezione in cui era inserito, sia come miglior opera prima.
Nell'aula e fuori
Fulcro e punto di partenza è il caso preso in esame, il processo a Narayan Kamble, sessantacinquenne attivista che con il suo gruppo si dedica alle comunità di lavoratori, accusato di aver istigato un operaio delle fogne a commettere suicidio dopo aver ascoltato una sua canzone. Un'accusa che sa di ridicolo, perché il suicidio consisterebbe nell'essere entrato in un tombino senza l'adeguata protezione, e che vede la difesa affidata a Vinay Vora e l'accusa di Nutan sfidarsi al cospetto del giudice Sadavarte, declamando articoli di legge ed ascoltando l'unico testimone. Questi sono i veri protagonisti della storia, che lo script del film segue al di fuori dell'aula di tribunale, mostrandoci abitudini ed attività quotidiane in tutte le loro differenze: tra chi ha attitudini più occidentali e fa parte di quella parte di India più globalizzata e chi, invece, conduce una vita più umile e casalinga, tra cucina, figli e TV.
Lo sguardo sull'India
Lo script di Chaitanya Tamhane è abile nel raccontare la realtà in cui la storia si muove, usando l'impianto giudiziario di Court per raccontare i personaggi che danno vita al processo, oltre che il processo stesso. Il caso non è messo in secondo piano, ma non si erge mai a protagonista assoluto della storia, lasciando che siano le vite dei personaggi della vicenda a dettare modi e tempi narrativi del film. Lo dimostra anche la sequenza finale aggiunta dal regista dopo che l'aula, ormai deserta, sfuma in nero e mostra per un ultima volta uno spaccato della vita al di fuori del tribunale. E' una scelta che paga, perché riesce a fornire uno sguardo interessante sull'India e la zona di Mumbai che fa da sfondo al racconto, accennando anche ad una critica del sistema giudiziario indiano. Dove il film difetta è in una messa in scena molto piatta, che si affida alla camera fissa per scrutare l'interno dell'aula e tende a non favorire il coinvolgimento dello spettatore, che in molti casi si ritrova ad assistere come se fosse tra il pubblico in aula, mantenendosi a distanza da quanto accade.
Conclusione
Il film d'esordio di Chaitanya Tamhane riesce a raccontare la realtà processuale indiana senza perdere di vista un aspetto importante di essa: le vite dei personaggi che la animano, dal giudice agli avvocati, fino agli imputati, ma non riesce a coinvolgere fino il fondo lo spettatore a causa di una messa in scena molto statica ed a tratti fredda, che mantiene la distanza da quanto viene raccontato.
Movieplayer.it
3.0/5