Recensione Archeo (2011)

Definito "poesia visuale", Archeo è un film che dà all'immagine un peso preponderante, scarnifica la narrazione riducendola all'essenziale, elimina qualsiasi sovrastruttura, compreso l'uso dei dialoghi.

Le vie che portano all'essenza

Tre personaggi, un uomo, una donna e un ragazzino. Un paesaggio naturale, terra, vegetazione e acqua, con solo qualche sporadica traccia del passaggio umano: degli scalini, una vecchia cisterna abbandonata, forse antiche vestigia di una civiltà scomparsa. L'uomo e la donna sono caduti dal cielo, da un altro pianeta, forse, o da un altrove che comunque non ci è dato vedere; il ragazzino era già lì, e sembra vivere in totale simbiosi col suo ambiente. I tre incrociano le loro strade, si temono, si guardano con diffidenza: i loro primi contatti sono improntati allo scontro. La donna vuole proteggere dall'uomo il ragazzino, ma quest'ultimo è più diffidente verso di lei che verso l'altro; l'uomo va a caccia, ma la donna lo deruba della sua preda. Intanto, i tre continuano a seguire le loro strade nonostante gli sporadici incontri, in quest'universo primordiale e governato dai cicli costanti della natura: il ragazzino intona un mantra per la terra, la donna anela all'acqua, si immerge nelle sue profondità, la fa perfino sgorgare dalla brulla roccia; l'uomo scruta fiero l'orizzonte, solitario. Ma, prima o poi, questi tre esseri isolati, atomi in un mondo che scorre indifferente alle loro vicende, che dà loro la vita ma che a volte pare minacciarli, dovranno entrare più profondamente in contatto, per dare (o ridare) vita al più primordiale nucleo di società.


E' stato definito "poesia visuale", Archeo. In effetti, il film di Jan Cvitkovic (tra i più interessanti registi sloveni contemporanei) dà all'immagine un peso preponderante, scarnifica la narrazione riducendola all'essenziale, elimina qualsiasi sovrastruttura, compreso l'uso dei dialoghi. La trama è la semplice esplicitazione di un archetipo: un uomo, una donna e un bambino in un mondo deserto, l'embrione minimo di società, l'essere umano che deve ripartire per trovare, insieme ai suoi simili, una collocazione nel grande palcoscenico della natura. Dei tre protagonisti non ci è dato sapere nulla: né la loro provenienza, né come siano finiti in quel mondo; sappiamo solo che il ragazzino era lì da prima degli altri due, e che sembra aver raggiunto una stabile convivenza con l'ambiente in cui è inserito. Il linguaggio verbale non sembra appartenere ai tre individui: forse non l'hanno mai conosciuto, forse l'hanno dimenticato. Anche il loro uso della voce è essenziale: l'intonazione dei mantra, con cui rispondono a quelli che si levano dalla terra, oppure un grido d'aiuto quando la notte si fa minacciosa. Se l'uso significante dell'immagine, delle sconfinate scenografie naturali e della rappresentazione degli elementi, è l'elemento cardine del film di Cvitkovic, fondamentale è anche il sonoro: la terra chiama emettendo le sue note, i tre rispondono adeguandosi ad esse, e con esse ai suoi ritmi e alle sue regole. L'urto delle mani sugli artefatti produce un ritmo, il ritmo genera la danza: suono e immagine, musica e movimento, la forma primordiale di arte.

L'assenza di un setting preciso accentua il carattere universale della storia: quella di Archeo è una vicenda che potrebbe essere accaduta, che potrebbe accadere in un ipotetico e lontano futuro, o che in alternativa può essere letta come un'allegoria. Ciò che conta, e che evidentemente interessava al regista, è la rappresentazione pura, spogliata dalle sovrastrutture sociali, di quella forza misteriosa che spinge gli uomini gli uni verso gli altri, che crea legami, quindi empatia, quindi collaborazione. Quell'energia che dapprima si esplica in armonia con l'ambiente naturale, che non cerca di sopraffarlo ma semmai punta ad entrare in sintonia con esso, a stabilire un proficuo equilibrio; che al limite, quando l'ambiente pare farsi minaccioso, fa stringere i legami coi propri simili e porta a prepararsi alla difesa. L'urlo del bambino di fronte ai terrori notturni richiama l'uomo e la donna, completa e suggella definitivamente il legame creatosi tra i tre: all'amore appena stabilitosi tra i due adulti, all'atavico e irresistibile magnetismo che li ha uniti, si unisce il senso di protezione verso l'anello più debole, la preservazione della specie, l'investimento nel futuro rappresentato dall'individuo più giovane. Gli stessi sentimenti sono rappresentati in modo essenziale, come forza elementare, anch'essa animalizzata ma non per questo meno potente: non filtrata dal linguaggio o dalle categorie mentali, pura nel suo dispiegarsi, nello stabilire, essa stessa, connessioni.
Allegoria, storia di fantascienza ad ambientazione passata o futura, riflessione sulla famiglia, sulla società, o suggerimento su dove portare queste ultime nella contraddittoria realtà contemporanea, dai tratti così diametralmente opposti a quelli visti nel film: ognuno può leggere in Archeo una o più di queste cose, ognuno può intraprendere un proprio percorso di visione e di successiva elaborazione. L'estrema "disponibilità" del film di Cvitkovic è anche la sua forza, il suo prestarsi a letture differenti, nessuna delle quali ne inficia il fascino: un fascino che è sinergia di immagine e suono, che insieme a una recitazione più che mai essenziale creano movimento, narrazione, dramma. Gli elementi di base del cinema, nella loro essenza più pura, si combinano per offrire allo spettatore un'esperienza speciale: o che, almeno, risulterà tale per chi vorrà immergersi, perdersi e ritrovarsi nella fluidità del materiale filmico di cui quest'opera è composta.

Movieplayer.it

3.0/5