Anna Karenina made in Europe
Un pilastro della letteratura mondiale come Anna Karenina può essere rivisitato solo con una massiccia dose di umiltà e senza la pretesa di riscrivere o rivoluzionare gli intenti dello scrittore. La miniserie omonima in due puntate in onda su Rai Uno il 2 e 3 dicembre punta su un approccio moderno e ha l'ambizione di colmare i salti temporali e i silenzi del testo di Lev Tolstoj.
Alla bellezza eterea e all'interpretazione languida di Vittoria Puccini è affidata la responsabilità di trasformare in realtà le dichiarazioni di intenti di questa coproduzione europea che vede Rai Fiction e Lux Vide alle prese con partner tedeschi, spagnoli e francesi.
Queste attenzioni stuzzicano la protagonista e la incatenano in una relazione scandalosa per l'alta società frequentata dal consorte. Gli sguardi ricevuti, ammette con un senso di sconfitta nel cuore, non sono diretti a lei come donna ma alla moglie del futuro alto commissario. Neppure l'affetto per il figlio, allora, riescono a tenerla lontana dalla tentazione e così sfida ogni convenzione pur di stare con l'amato e lui, dal canto proprio, rinuncia a carriera e onori pur di renderla felice. L'evoluzione tragica del loro rapporto s'intreccia alle sorti della giovane Kitty (Lou De Laage), innamorata non corrisposta di Vronskij. La ragazza, con il cuore infranto e l'orgoglio ferito, lascia la Russia per lavorare come infermiera volontaria in un ospedale militare in Germania. Qui riscopre l'umanità e, messe da parte la civetteria e il narcisismo, fa rientro in patria guardando sotto una nuova luce Levin (Max Von Thun), che tempo prima aveva rifiutato per seguire i sogni romantici sul colonnello.
Il fratello di Anna, Stiva (Pietro Sermonti), intanto, ha riconquistato la fiducia della moglie Dolly (Carlotta Natoli) dopo vari tradimenti grazie all'aiuto della sorella e, in un gioco di specchi, si ritrova a doverla a sua volta difendere per il comportamento sconveniente. L'epicità della storia prende vita, allora, grazie ad un notevole sforzo produttivo, costantemente impegnato a ricreare la grandiosità del racconto.
La regia di Christian Duguay indugia su un gioco di sguardi e su emozioni sfuggenti e volatili anziché far ardere di passione i protagonisti e la fotografia di Fabrizio Lucci incornicia quest'atmosfera quasi sospesa tra un tempo austero e qualche parentesi di trasgressione.
Le ambientazioni sembrano talmente ricercate e patinate da risultare quasi cristallizzate in un panorama statico mentre i costumi riescono, in alcuni momenti, a sottolineare il tono del racconto, anziché limitarsi ad essere un mero contenitore asettico della personalità dei protagonisti.
Le musiche, al contrario, enfatizzano in ogni singolo istante situazioni e stati d'animo, amplificandoli fino ad ottenere un distillato di dramma puro con poche gradazioni d'intensità.
Il rischio di alto tasso di ridondanza e retorica si affaccia molto spesso all'orizzonte, ma viene tenuto sotto controllo e in precario equilibrio da un cast che nell'insieme funziona e viaggia sulla stessa lunghezza d'onda. Qualunque essa sia.