1945, confine tra Ungheria e Cecoslovacchia. Il paesaggio è completamente innevato, gli unici sprazzi di colore che spiccano sul bianco sono quelli di una jeep della Croce Rossa da cui scendono un'infermiera e una giovane coperta all'inverosimile. Si chiama Anita e dopo aver visto morire i genitori ad Auschwitz sta per iniziare una nuova vita. La ragazza sta per essere portata a Zvikovez dove l'attendono la zia Monika (Andrea Osvart), sorella del padre, lo zio Aron (Antonio Cupo) e il piccolo Robert. A compiere con lei il lungo viaggio verso casa c'è Eli (Robert Sheehan), il fratello di Aron, un ragazzo affascinante e molto audace che da subito solletica la fantasia di Anita. Il rientro alla normalità non è affatto semplice per la giovane che viene trattata con freddezza dalla zia; nessuno dei suoi, infatti, vuol ricordare quanto avvenuto anni prima.
Colpita da questo atteggiamento, Anita racconta quotidianamente la tragedia vissuta al cuginetto, che naturalmente non può capirla e si rifugia nella pittura e nella scrittura, due interessi che sono cresciuti nel tempo anche grazie al sentimento sempre più forte che la lega ad Eli. Tra le braccia dell'uomo, Anita scopre l'amore; scopre anche quanto possa essere anaffettivo un ragazzo che le impone di abortire e che sembra disposto a tutto pur di non mettere al mondo un bambino. Anita però ha altri progetti per sé e per il piccolo che ha deciso di far nascere; decide quindi di partire per la Palestina, realizzando il sogno di poter vedere la Terra Promessa.
Raccontare l'orrore
Ancora una volta nella sua lunga ed articolata carriera, Roberto Faenza affronta il tema della Shoah, uno dei più grandi scempi compiuti nella storia, oltraggioso e feroce progetto di eliminazione dell'altro. Se in Jona che visse nella balena il punto di vista era quello di un bambino olandese, sottratto all'affetto della sua famiglia dal rastrellamento delle SS, in Anita B. lo sguardo della protagonista è quello di una giovane che dopo la prigionia nel campo di concentramento prova a riprendere in mano il proprio destino, realizzandosi in pieno, umanamente e anche come artista. Sotto questo aspetto non possiamo non essere attratti dal candore di un personaggio come Anita, che alla ferocia nazista risponde con l'incredibile vitalità di una donna coraggiosa e mai doma che, per citare il regista, 'trasforma il salto nel buio in una occasione di ribellione e rinascita'. A far da guida al regista in questo percorso è il libro di Edith Bruck, Quanta stella c'è nel cielo, pubblicato nel 2009 e vincitore del premio Viareggio. La scrittrice ungherese, che per il titolo del romanzo ha rubato il verso di una poesia di Sándor Petőfi, ha anche firmato la sceneggiatura assieme al marito Nelo Risi, allo stesso Faenza e a Iole Masucci.
Sabrina e Anita
Per Roberto Faenza Anita può essere la sorella minore di quella Sabina Spielrein protagonista di Prendimi l'anima, film del 2002 in cui, seppur con toni diversi, l'autore torinese racconta di un'altra personalità femminile originale, in lotta con i propri demoni e con una figura maschile dogmatica e ambigua (Carl Gustav Jung), da cui riesce a separarsi. Di Sabina, la cui passionalità è più enfatica e tumultuosa, Anita ha lo stesso coraggio, con in più un candore adolescenziale che traspare negli occhi dell'attrice Eline Powell, interprete ancora acerba ma assolutamente in parte. La pellicola di Faenza, scelta per aprire la giornata della memoria allo Yad Vashem, nella programmazione del festival di Gerusalemme, è quindi genuina quando coincide con il percorso della sua protagonista, tuttavia qualcosa ne trattiene il volo. Il blocco che impedisce al film di esplodere con veemenza e di fissarsi nella mente e nel cuore dello spettatore è paradossalmente lo stesso che avvinghia i protagonisti della storia, cioè aver messo tra parentesi la questione della memoria. Quello che avrebbe dovuto essere il motore del film, ossia la volontà di non cancellare l'orrore vissuto, diviene un tema marginale, toccato solo superficialmente. In questo modo persino una vicenda come quella di Anita finisce per appiattirsi.
Una storia (troppo) semplice
E' un film neutro quello di Faenza, che non riesce (almeno non sempre) a trasporre a livello drammaturgico e anche stilistico la sofferenza interiore della sua protagonista, adolescente in attesa di diventare donna, essere umano che sente la necessità di non dimenticare il dolore vissuto per andare avanti, certa che l'oblio coincida con una nuova morte. Stupisce quindi che un autore sempre molto sensibile alle diverse sfumature dell'universo femminile si sia lasciato sfuggire l'occasione di presentarci un personaggio a tutto tondo, complesso, inserito in un conteso storico e culturale di grandissimo interesse e ricchezza (possiamo solo intuirlo nella bella sequenza in cui vediamo Moni Ovadia all'opera), trasformandone la vicenda in un racconto poco emozionante, o almeno non quanto ci si sarebbe attesi.
E' la partitura insomma a non funzionare del tutto, una partitura che avrebbe dovuto esaltare il cuore pulsante della storia di Anita, la lotta contro la dimenticanza, e che diventa invece un mesto racconto di formazione. Perché la famiglia voglia dimenticare, cosa giustifichi tale freddezza nei confronti di una sopravvisuta, Faenza non lo spiega, preferendo quindi una narrazione più semplice (dunque meno approfondita), che però ci priva della parte più interessante. Sarebbe stato questo l'elemento giusto per dare al film quell'innovazione in grado di narrare il dramma dell'Olocausto da una prospettiva diversa, dicendo meglio qualcosa che è stato solo intuito e mostrato a sprazzi.
Movieplayer.it
3.0/5